The Mon – Songs Of Abandon
Un disco che brucia la notte e illumina i sentieri antichi.
Suoni che sembrano specchi d’acqua, superfici placide dentro cui guardiamo la nostra immagine deformata, vulnerabile, autentica. Suoni sottili, delicati, analogici, che non cedono mai alla tentazione dell’eccesso, ma scelgono la strada opposta: il sussurro, la cicatrice, la memoria. Ogni nota porta addosso frammenti della nostra quotidianità — ansie accumulate, dolori mai del tutto rimarginati, ferite che pulsano ancora nel buio.

Nel mondo di “Songs of Abandon”, il folk e il dark non sono generi, ma stati dell’anima: ombre che scivolano sulle pareti della coscienza, spiragli di luce che provano a farsi strada, come se qualcuno dall’altra parte del tempo ci stesse chiamando. È un disco con un’aura antica, quasi rituale, che sembra provenire dai boschi dei nostri antenati, dai villaggi nascosti nelle radure, dai fuochi accesi durante gli equinozi. Eppure è un disco profondamente contemporaneo, perché quei sentimenti — paura, desiderio, solitudine, stupore — sono gli stessi che ci accompagnano da sempre, la colonna sonora dei nostri passi nel mondo.
Le ombre, qui, non sono semplici metafore. Sono creature fameliche, entità che ci osservano dalle intercapedini della realtà, ombre materiali, che conferiscono a queste canzoni un sapore arcano, magico, inquieto. Un gusto che richiama il neo-paganesimo di Robert Graves, con la sua ricerca della “dea bianca” nascosta nelle foreste del mito, o di Kathleen Raine, che intravedeva il divino nelle radici degli alberi, nelle forze naturali e nel respiro del vento.
Urlo prende tutto questo e lo traduce in suono: sottrae, asciuga, ripulisce. Toglie il superfluo come un artigiano che scolpisce una forma primordiale. Le chitarre diventano traiettorie di luce, indicazioni luminose sulla mappa cosmica che ci invita a ricongiungerci con le forze invisibili che abitano i mondi. Forze che non sono crudeli, né malvagie — lo diventano solo quando vengono travisate, manipolate, usate dall’uomo per giustificare ideologie deformi o divinità fasulle.
L’universo è pieno di creature di pietra pronte a svegliarsi — e in queste canzoni le percepiamo muoversi, respirare, avvicinarsi. Non per spaventarci, ma per ricordarci che la natura e il cosmo sono più grandi delle nostre paure, più antichi dei nostri dogmi, più saggi delle nostre dottrine. Elevandoci oltre la carne, lasciandoci condurre dalla lingua matematica e rituale della musica, possiamo superare i limiti della nostra percezione umana e affacciare lo sguardo verso la vera appartenenza al mondo: quella che non passa per la religione o la politica, ma per l’atto puro dell’ascolto. Della resa. Della fiducia.
E allora “Songs of Abandon” non è solo un disco: è un sentiero iniziatico. Una guida notturna verso una speranza cosmica, una fede laica che non appartiene a nessuna istituzione, ma alla materia stessa del suono. Una speranza che ci libera dalle convinzioni facili, dall’inerzia, dalle risposte prefabbricate. Anche se questo significa affrontare noi stessi: la solitudine, le ombre interiori, le idee sbagliate, gli errori che continuano farci vagare nel buio.
Perché la verità — quella vera — si trova spesso proprio lì, dove sembra di essere più soli. E questo disco ci accompagna fino a quel punto, con passo lento, con devozione, come un antico poeta pagano che porta una lanterna nella notte e indica la strada verso casa.
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