The Last Dinner Party – From The Pyre
Dopo il grande successo del loro debutto, “Prelude to Ecstasy” — un disco che ha fatto parlare di sé fin da subito con il suo mix di teatralità, suoni barocchi e un’estetica super curata — The Last Dinner Party tornano con “From the Pyre”, un album molto atteso, inutile negarlo, e carico di aspettative.
Impossibile non nominarle: cinque ragazze davvero talentuose. Abigail Morris, voce inconfondibile e carismatica della band, Lizzie Mayland alla chitarra, Emily Roberts (che si divide tra chitarra, mandolino e flauto), Georgia Davies al basso e Aurora Nishevci a tastiere e synth. Tutte e cinque hanno messo la voce nei brani dell’album, contribuendo a creare un sound corale e sfaccettato.
La scelta di non avere un batterista fisso, già sperimentata nel primo disco, si conferma anche qui come una mossa vincente: ha dato loro la libertà di esplorare arrangiamenti più aperti, fluidi, con dinamiche che vanno dall’intimo al teatrale senza mai sembrare forzate.

Dopo l’uscita di “Prelude to Ecstasy”, il successo è arrivato subito, insieme al primo vero tour. Come ha raccontato la cantante Abigail Morris in un’intervista a NME,
il disco è uscito e siamo partiti subito in tour. Per noi è stato il miglior tour che abbiamo fatto perché era la prima volta che la gente conosceva tutte le parole
Un momento d’oro, certo, ma non privo di ombre. Mentre ritiravano il BRIT Award come Best New Artist, le ragazze hanno parlato apertamente anche del rovescio della medaglia: il peso improvviso della popolarità e del ritmo frenetico. Alcuni concerti sono stati cancellati per esaurimenti emotivi, mentali e fisici. La bassista Georgia Davies ha spiegato quanto sia importante, prima di tutto, prendersi cura di sé:
…altrimenti tutto il resto crollerà. Stabilire le proprie aspettative per l’anno e capire i propri limiti fisici e mentali è vitale.
Eppure, nonostante tutto, hanno iniziato a lavorare al secondo album proprio nel mezzo del tour. Avevano le idee chiare: niente copia-incolla del primo disco. Volevano cambiare, evolversi, soprattutto a livello estetico e visivo, senza però perdere il cuore del loro suono.
Per “From the Pyre”, hanno fatto le cose in grande, affidandosi a un nome di peso: Markus Dravs, uno che sa il fatto suo.
Il curriculum di Dravs era praticamente una lista perfetta dei loro riferimenti musicali: Florence + the Machine, Wolf Alice, Björk…
In studio, il lavoro è stato molto più libero rispetto all’esordio: niente pressioni esterne, solo idee, ispirazioni e voglia di sperimentare. Sono entrate con scheletri di canzoni e le hanno costruite lì, sul momento, assieme a lui.
Anche la copertina non scherza: scattata da Laura Marie Cieplik, ritrae le cinque attorno a una pira, in mezzo a un paesaggio che sembra uscito da un incubo pagano.
Per loro, l’estetica non è un vezzo. Ogni immagine, ogni look, ogni dettaglio visivo è un messaggio. Abigail lo dice senza giri di parole: i visuals sono parte del progetto, quanto la musica. Lizzie riflette su quanto il disco parli anche di isolamento, identità, e del modo in cui ci si espone al giudizio di chi ascolta. Emily invece lo mette giù secco: quello che le tiene insieme non è l’uniformità, ma il fatto che ognuna porta qualcosa di diverso.
Bene, adesso basta chiacchiere: parliamo delle canzoni.
“From the Pyre” non è un disco che si lascia ascoltare distrattamente. Ogni traccia è una piccola bomba pronta a esplodere. È un album che ama muoversi tra estremi: dalla teatralità al minimalismo, dalla luce alle tenebre, il tutto gestito con classe, qui non ne manca.
Si parte subito forte con “Agnus Dei”, un brano che irrompe come un presagio apocalittico: immagini potenti e un tono da messa nera. Ma chi è Lee Hazlewood? Ce lo chiediamo anche noi, mentre il pezzo si gonfia fino a un finale corale travolgente.
Suona quasi come un epilogo più che un inizio, ma messo lì, in apertura, serve a mettere in chiaro una cosa: qui si gioca con il fuoco!
“This Is the Killer Speaking” raccoglie quella stessa tensione e la trasforma in racconto.
Anche qui la struttura cresce lentamente, poi esplode. La teatralità è in pieno stile Last Dinner Party, ma si avverte un clima più sporco, qui polvere e cenere sporcano l’immagine barocca dell’esordio.
Ci sono canzoni che entrano in testa subito, senza chiedere permesso. “Count the Ways” è una di queste.
Dal ponte con quel “posso sentire le campane” fino al ritornello trionfante, è impossibile non sorridere.
Sembra già pronta per i live estivi: Abigail che canta con il pubblico, mani in aria, sole a picco. Gioia pura.
E poi ci sono i brani più elusivi, che si svelano lentamente. Canzoni nate nota per nota, costruite in studio, con libertà assoluta.
Sono quelle che ti rapinano l’anima. E sono forse il cuore più vivo del disco.
“Second Best“, scritta da Emily Roberts, è una ballata dolente ma orgogliosa, che scava nella frustrazione di sentirsi sempre un passo indietro.
Ma non è una resa ma piuttosto una sfida. “Non accetterò di essere il secondo migliore.”
Abigail Morris qui dà il meglio: voce fragile e potente, piena di sfumature. C’è qualcosa di Kate Bush, la stessa libertà espressiva, lo stesso coraggio.
Proprio Emily ricorda che la forza del quintetto sta nel fatto che “siamo cinque individui”. Ognuna con una visione diversa. È da questa molteplicità che nasce la ricchezza del progetto.
E se “I Hold Your Anger” e “Sail Away” raccontano dubbi e separazioni, lo fanno in modo diverso ma complementare.
Entrambe si aprono con tastiere avvolgenti: la prima è calda, intima, e si apre con sollievo nel ritornello. La seconda è più lenta, ipnotica, con un tocco rétro che ricorda certe ballate anni Cinquanta, una di quelle canzoni che potresti immaginare cantata da una massaia nel giardino di casa.
“The Shythe” è invece la vera resa al dolore. Il brano più emozionante del disco. Racconta una perdita senza retorica, lasciando che siano silenzi e sospensioni a parlare. La falce qui non è violenta e passa lieve, taglia con delicatezza. Rimane solo il vuoto. Ed è proprio qui che il disco tocca il suo punto più umano.
In “Rifle”, la voce di Abigail, setosa ed elegante , si accompagna a uno stacco chitarristico secco, il più rock dell’album.
Il contrasto funziona benissimo, e il finale, in francese, è spiazzante e misterioso.
L’album è, in fondo, una raccolta di racconti nati da un falò rituale, quello che campeggia sulla copertina.
Violenza, distruzione, ma anche rinascita, passione, luce: tutto si mescola come scintille impazzite.
“Woman Is a Tree“ è una marcia funebre. Un momento solenne, spettrale.
Le voci si intrecciano come lamenti, e le armonie vocali, presenti in tutto l’album qui diventano protagoniste assolute.
È forse il momento più rituale, più spettrale dell’intero disco.
E poi, “Inferno” a chiudere il disco. Ci saluta Gesù Cristo, insieme a Giovanna d’Arco, mentre il brano si scioglie in un “oh oh oh” che sembra quasi sbarazzino.
Un addio leggero, ma carico di significato.
Non c’è più oro, velluto o decorazioni: tutto ciò che ci aveva stregato all’esordio è stato messo da parte.
“From the Pyre” è più ruvido, più drammatico. Ogni canzone è una storia, ogni storia un personaggio fuori di testa.
Se “Prelude to Ecstasy” era la meraviglia della scoperta, “From the Pyre” è la conferma.
The Last Dinner Party sanno dove andare. E non hanno paura di sporcare il bel vestito: questo sophomore è la conferma di tutto quello che di buono è stato detto e scritto sulla band londinese.
C’è tanta magia in questo disco. La stregoneria fatta quotidianità, portata all’estremo.
Le immagini, fucili, falci, santi, rendono l’ascolto un’esperienza intensa, viscerale, a tratti disturbante.
E se non capisci tutto al primo ascolto, è solo un buon segno.
“From the Pyre” è un disco che brucia lento, proprio come la pira sulla copertina.
Devi avvicinarti con attenzione, sentirne il calore. Devi ascoltarlo libero da pregiudizi, e lasciare che le emozioni scorrano, come quando, da bambini, volevamo che ci raccontassero le storie che facevano paura.
Quelle che ripercorrevamo nella testa, prima di addormentarci, nascosti sotto le coperte.
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