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Sul Medio Oriente Trump non ha una strategia diplomatica ma interessi economici

Il piano di Donald Trump di “spostare” 2 milioni di Palestinesi dalla striscia di Gaza in Egitto e in Giordania «è impossibile. Per questo ha provocato le reazioni di tutti i paesi arabi». Solo per smalitre i detriti provocati dalle bombe «la Banca mondiale ha stimato che serviranno 10 anni, oltre a 53 miliardi di dollari per la ricostruzione». Ma il presidente americano «ha bisogno di un nuovo Medio Oriente in cui la questione palestinese sia risolta» perché «è da lì che passa il corridoio indo-europeo a cui Trump guarda come alternativa alla via della Seta tra Cina ed Europa». In una logica economica, tipica del tycoon, si comprendono meglio le ultime mosse dell’amministrazione Usa in Medio Oriente. Potrebbero aver impresso «un colpo di acceleratore all’evoluzione delle vicende di una regione che ha bisogno di stabilità». Di questo e del recente viaggio di Trump nella regione hanno discusso al Festival dell’economia Paolo Magri presidente del comitato scientifico di Ispi, Valeria Talbot, responsabile dell’osservatorio Medio Oriente di Ispi, e Pejman Abdolmohammadi, professore della Scuola di studi internazionali dell’Università di Trento ed esperto di Medio Oriente. «Israele resta un alleato chiave degli Stati Uniti, anche se Netanyahu non è il miglior amico di Donald Trump che guarda di più agli Emirati, alle monarchie del golfo, al Qatar. Il presidente americano non ha una vera e propria strategia in Medio Oriente – ha affermato Valeria Talbot – ma ha interessi industriali e commerciali che rientrano nel confronto in corso con la Cina. Perciò ha bisogno che in quell’area ci sia stabilità».

«E’ necessario che Israele faccia dei passi indietro su molte cose che sono eccessive – ha sostenuto Abdolmohammadi – ma al tempo stesso è necessario che tra i palestinesi emerga una nuova classe dirigente in grado di guidare il Paese». Questo è possibile ma «bisogna tornare alla situazione del 1967», prima della guerra dei sei giorni. Solo così si può ragionare sulla prospettiva di uno Stato palestinese, «magari passando attraverso una fase transitoria in cui la Palestina sia una sorta di regione autonoma nello Stato di Israele. Tanti palestinesi che vivono all’estero ma non solo, professionisti preparati, possono farlo. Ma basta accarezzare i barboni degli estremisti. Da questo punto di vista – aggiunge – le Sinistre occidentali in Palestina hanno fatto tanti danni».

Ma dov’è e cosa fa o può fare l’Europa, è la domanda che anche questa volta si è alzata dalla platea. «Tre cose, tutte molto simboliche» ha risposto Paolo Magri: «La prima è interrompere il negoziato commerciale con Israele; la seconda è sospendere l’accordo di associazione che nei fatti è un accordo commerciale; terza, può riconoscere lo Stato della Palestina». Con quali confini? «Per questo motivo anche quest’ultima cosa è poco più che simbolica». Infine, gli stati dell’Unione europea potrebbero «smettere di vendere armi ad Israele» come ricorda un intervento dalla platea. Ma anche questa misura sarebbe poco efficace, visto che la quasi totalità delle forniture militari proviene dagli Stati Uniti.


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