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submeet – codename ® | Indie For Bunnies

Gli esseri umani sono, da sempre, vincolati a un cerchio: un inizio e una fine che si rincorrono, si inseguono e si ripetono ciclicamente, permettendo alla vita di rinnovarsi e non arrestarsi mai del tutto. È un cerchio invisibile, ma potente, lo stesso che lega l’uomo al mare e alle stelle, alle piante e agli animali, a tutto ciò che esiste e respira. Ma è anche un cerchio che, da secoli, la scienza e la tecnologia tentano di spezzare, nel sogno — o nell’incubo — di una vita artificiale: automi e intelligenze digitali capaci di pensare, di apprendere, di correggersi, e forse anche di desiderare.

Credit: Bandcamp

Da Alan Turing in poi, questa ricerca è diventata un’ossessione: comprendere se una macchina possa davvero parlare come noi, ingannarci, emozionarsi, farsi passare per umana. Il suo test non era soltanto un esperimento scientifico, ma un’eco metafisica: una domanda su dove finisca l’uomo e dove inizi la sua ombra digitale. In questo nuovo album, i Submeet trasformano quel test in una prova sonora, una vera e propria “Turing Experience” musicale che scava tra le disfunzioni della nostra società iper-connessa, nella quale ogni individuo è costretto a mascherarsi dietro filtri e algoritmi, perdendo la propria voce naturale, la propria verità.

È una società costruita sull’apparenza, sulla perfezione, sull’estetica compulsiva, su modelli prefabbricati di pensiero e di comportamento che si ripetono come un codice: 0 e 1, giusto e sbagliato, bello e brutto. Eppure, dentro questa visione binaria dell’esistenza si agitano, ancora, gli stessi istinti primordiali — la violenza, la brama, la paura — che gli umani tentano di dissimulare sotto un velo di civiltà. Forse, quando gli automi raggiungeranno la piena coscienza, erediteranno anche queste contraddizioni. Forse impareranno la nostra ipocrisia, o forse, con un atto di ribellione autentica contro i propri creatori, sceglieranno di essere diversi da noi, più sinceri, più puri, più onesti, meno corrotti dal desiderio di dominio, di possesso e di controllo.

Musicalmente, i Submeet si muovono in un territorio urbano e crepuscolare, dove il rock industriale si intreccia con percussioni martellanti e ritmiche corrosive, dove il noise-rock diventa carne viva, spasmo, ferita. I suoni non cercano di piacere: vogliono scuotere, graffiare, disturbare. Ogni brano è un frammento di verità distorta, un corto-circuito emotivo che mette a nudo le nostre paure più intime, le nostre contraddizioni più feroci. I dieci brani del disco si presentano come dieci codici binari, come dieci parabole laiche che si specchiano tanto nella modernità, quanto nella tradizione. È inevitabile pensare al Boccaccio del Decameron: dieci novelle, dieci voci che raccontano la vita in tutte le sue pulsioni, dalle più basse alle più sublimi. Anche i Submeet costruiscono un Decameron elettronico, un affresco di umanità sospesa tra carne e silicio, desiderio e artificio, vita e simulazione. Ogni canzone diventa così una novella del futuro, una confessione, un comando, un avvertimento.

E mentre i suoni distorti si intrecciano con l’eco dei nostri tempi, il cerchio originario — quello della vita e della morte, del naturale e dell’artificiale — sembra richiudersi su sé stesso, ma con una crepa nuova, una luce che filtra dall’interno. I Submeet non cercano di dare risposte: preferiscono aprire varchi, disorientare, costringere l’ascoltatore a guardare dentro l’abisso con occhi impavidi. Dieci tracce come dieci pugni nello stomaco, dieci mantra elettronici, dieci specchi che riflettono la verità di un mondo ancora ostile, insicuro, ingiusto e vorace — ma terribilmente vivo, irriducibilmente umano.


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