Strage di via D’Amelio, perché la memoria diventi una forma di giustizia
Il caldo è lo stesso, il cielo sopra Palermo oggi brucia come allora. Ma il silenzio, oggi, è più pesante. Perché da trentatré anni a questa parte, ogni 19 luglio, il tempo si ferma. E torna lì, alle 16:58, in via D’Amelio. Non è solo il giorno in cui morì il giudice Paolo Borsellino. È il giorno in cui morirono anche i suoi agenti della scorta. Ragazzi, spesso giovanissimi, le cui storie tornano al centro nella docuserie I ragazzi delle scorte, realizzata da 42°Parallelo in collaborazione con il Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Questa sera su Rai 3, alle 21.20 verranno trasmessi i due episodi dedicati agli agenti Vincenzo Fabio Li Muli, il più giovane ed Eddie Walter Max Cosina, uno dei pochi arrivato dal Nord, da Trieste. La serie è composta da otto episodi, ciascuno dedicato a uno degli agenti uccisi nei due attentati del 1992: Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Fabio Li Muli ed Eddie Cosina.
19 luglio 1992
«Il 19 luglio io ho iniziato la giornata tranquillamente, come una domenica normale», racconta Victoria Elena De Lisi, fidanzata di Vincenzo Fabio Li Muli. «Sono rimasta a casa quel giorno con le mie due sorelle, i miei genitori erano fuori, anche mio fratello era uscito. Mi stavo preparando per vedermi con Fabio la sera, alla fine del suo turno. Intorno alle alle 17:30 mi sento chiamare da una vicina di casa che mi domanda se Fabio fosse con me in quel momento, io dico di no perché era di servizio, che sarebbe arrivato più tardi, ho chiesto alla signora perché e lei mi ha detto “ma tu sai con chi è, con chi lavora, con chi è di scorta?”. Chiaramente ho detto di no alla signora perché non potevamo dirlo. Sono entrata di nuovo in casa, squilla il telefono, questa volta è mio fratello che mi chiede “Vittoria, Fabio è con te?”, ho detto “No, perché? Sei la seconda persona che che me lo chiede in questo momento”. Dice “ho sentito qualcosa in televisione, accendi la tv, vedi cosa cosa è successo”. E mi ha chiesto se ero a casa da sola. Ho acceso la televisione e mi rimbombava in quel momento una frase che mi aveva detto mio fratello, e cioè “mi sembra d’aver sentito il nome di Fabio in tv”. Io sono stata lì a guardare le immagini e ripetevo che Fabio non poteva essere lì, che stava bene e mi avrebbe chiamata. Quando hanno detto i nomi continuavo a dire che non era possibile, che probabilmente c’era stato un errore, ho urlato, mi sono messa a piangere, le mie sorelle sono venute subito a consolarmi, però non ci sono riuscite».
Il senso della memoria
Sono trascorsi trentatré anni dalla strage di Via D’Amelio e non è stata fatta giustizia. I familiari delle vittime continuano a chiedere che la verità veda la luce, nonostante i continui depistaggi. In questo vuoto, ricordare diventa un atto necessario: non solo per onorare chi ha perso la vita, ma per interrogarsi sul presente. Come racconta Sabrina Li Muli nell’episodio dedicato a suo fratello: «Lo Stato è fatto di persone. E al suo all’interno ce ne sono che valgono, perché altrimenti non avrebbe senso la morte che ha fatto Fabio, e non posso accettare invece che sia morto per niente. Quindi per me nello Stato c’è gente onesta, così come c’è gente marcia. Per cui la speranza è quella che le persone che producono, che rendono questa parte dello stato così marcio si pentano e facciano sì che la verità effettivamente esca fuori». Quando mancano la giustizia e la verità, la memoria diventa un atto civile, perché sceglie di non dimenticare, perché costringe il Paese a guardarsi allo specchio. «Io provo a credere nella giustizia, credo nei magistrati, credo nei nei giudici che fanno il loro lavoro», racconta Victoria De Lisi. «Però una cosa mi fa molto male, perché quei ragazzi, gli agenti e il giudice Borsellino sono stati abbandonati?».
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