Strage a Israele, quel Sette Ottobre già dimenticato
Ciò che dovrebbe risvegliare le nostre coscienze sono due implicazioni particolarmente inquietanti della strage a Israele del sette ottobre e della guerra che ne è seguita: la potente recrudescenza dell’antisemitismo e i rischi di estensione del conflitto
Suscitare la massiccia reazione militare di Israele e sfruttare l’angoscia di centinaia di familiari dei rapiti per fare pressione sul governo Netanyahu era ovviamente il primo obiettivo dei terroristi e dei loro sostenitori dentro e fuori Gaza. Impedire o quanto meno paralizzare gli Accordi di Abramo tra Israele e i principali paesi arabi sunniti (con il beneplacito saudita), nati dal comune timore dell’Iran, era ugualmente ascrivibile tra gli scopi della strategia di Hamas e dei suoi sodali e sostenitori, a cominciare naturalmente da Teheran. Quest’ultima poi aveva certamente messo in conto la mobilitazione armata contro Israele dal Libano ad opera di Hezbollah e dallo Yemen per mano degli Houti, entrambi al soldo del regime degli Ayatollah.
Ciò che forse ha sorpreso gli stessi ispiratori della strage del sette ottobre è la rapidità e la portata del progressivo isolamento di Israele. Si è andati ben oltre lo scontato plauso delle piazze arabe, più o meno manipolate, per l’attacco allo “Stato sionista” o il rinnovato sostegno ad Hamas e Hezbollah da parte di Putin ed Erdogan. Infatti, da mesi ormai Israele è sul banco degli imputati per le ripercussioni umanitarie del conflitto a Gaza, mentre nel dibattito pubblico e mediatico si è persa traccia del solco profondo che separa l’aggredito dall’aggressore, della concatenazione tra cause ed effetti del conflitto, del divario esistente tra l’unica democrazia realizzata del Medio Oriente e un’organizzazione terroristica, giuridicamente riconosciuta come tale da tutti i paesi dell’Unione europea sin dal 2003 (e che da allora non ha certo offerto motivi per modificare questo giudizio).
Ciò che dovrebbe risvegliare le nostre coscienze sono due implicazioni particolarmente inquietanti della strage a Israele del 7 ottobre 2023 e della guerra che ne è seguita: la potente recrudescenza dell’antisemitismo e i rischi di estensione del conflitto.
Alle iniziali (spesso retoriche e sbrigative) espressioni di solidarietà col popolo israeliano vittima dell’attacco, hanno rapidamente fatto seguito una serie di distinguo e precisazioni, culminati nell’attribuzione a Israele della responsabilità politica per quanto accaduto, nell’accusa di perseguire il genocidio del popolo palestinese, nella sostanziale legittimazione dei metodi di Hamas, quale strumento estremo della lotta per la liberazione del popolo palestinese e la sua legittima aspirazione ad uno Stato.
Si è così affermata una lettura univoca e strumentale del conflitto che spaccia l’antico odio antisemita per un non meglio precisato antisionismo (che altro non è che la negazione del diritto degli Ebrei a tornare a vivere in pace nella terra di Sion) operando un’ambigua quanto impossibile distinzione tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, le cui radici affondano nella storia e alimentano da sempre la civiltà occidentale come l’abbiamo sinora conosciuta.
Mai come ora la sindrome dell’accerchiamento è stata così forte e pervasiva in Israele, che percepisce una autentica minaccia esistenziale e si vede attaccato da ogni lato. Di qui i gravi rischi che l’esercizio del diritto di autodifesa estenda il conflitto ben oltre i confini di Gaza: dal Libano alla Siria, allo Yemen e oltre. Uno scenario esplosivo in cui si muovono numerosi attori visibili ed occulti e agiscono molti piromani e ben pochi pompieri. Tra questi ultimi rientrano senza dubbio gli Stati Uniti di Biden, che insegue la speranza di marcare il tramonto del suo mandato quantomeno con il raggiungimento di un cessate il fuoco e la restituzione degli ostaggi israeliani, la cui sorte resta ignota.
Le febbrili trattative condotte da USA, Egitto e Qatar per addivenire a questo risultato minimalista avanzano a tentoni e sono esposte alle ripercussioni di quanto accade sul terreno e ad una pressione mediatica che non esita a utilizzare ogni strumento di propaganda per alimentare la tensione.
Credo che la sola speranza di arginare il conflitto consista in una revisione delle rispettive strategie da parte di Israele e dei Palestinesi. La fiducia nella vitalità del tessuto democratico di Israele induce ad attendersi una prima mossa su quel fronte. Da mesi il Paese è lacerato dal dilemma tra il ristabilimento della deterrenza, ovvero l’obiettivo di mettere Hamas in condizioni di non nuocere, e l’imperativo morale di fare tutto il possibile per salvare la vita degli ostaggi.
Un dilemma che ha trovato espressioni eclatanti nelle massicce dimostrazioni di piazza di questi mesi e ha minato la popolarità di Netanyahu tra i suoi cittadini, innescando un aspro confronto tra governo e opposizione, che non ha ancora trovato sbocco in una vera e propria crisi di governo che aprirebbe la strada a elezioni anticipate. Israele dovrà trarre dalla sua capacità di resilienza e dalla sua determinazione a resistere e ad esistere una rinnovata coesione interna e compiere scelte difficili e amare pur di conseguire obiettivi prioritari condivisi. Il ritorno degli ostaggi è sicuramente tra questi.
Quanto al ristabilimento della deterrenza, se è inteso come riduzione della capacità offensiva di Hamas, l’eliminazione di molti dei suoi capi è un fatto acclarato. Ben più arduo per Israele è sconfiggere quanti nel mondo professano la sua cancellazione dalla carta geografica e respingere le minacce provenienti da ogni lato. Questo obiettivo non può essere perseguito soltanto con mezzi militari, ma comporta l’esigenza di mobilitare i partner della comunità internazionale che riconoscono in Israele uno Stato democratico e liberale e condividono con esso quei valori fondanti della civiltà occidentale che i più acerrimi nemici di Israele mettono apertamente in discussione.
Sul fronte palestinese la situazione è più complessa a causa di divisioni, rivalità e lotte di potere. Manca ancora un tessuto democratico capace di portare alla luce una leadership capace di scelte fondamentali, come riconoscere la legittima esistenza di uno Stato ebraico ai propri confini. Quel che è certo è che il popolo palestinese è la principale vittima di quanti al suo interno e nel mondo islamico si professano paladini della causa palestinese, ma in realtà hanno interesse a mantenere acceso un conflitto che alimenta odio e violenza e mortifica le speranze di un intero popolo.
Eppure, non dobbiamo rassegnarci all’ineluttabilità del conflitto armato tra Israele e Palestina, e tanto meno illuderci che quella guerra possa protrarsi senza prima o poi toccarci molto più da vicino infiammando un’intera regione, dall’immenso valore strategico per tutti noi.
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