Società

Stefano Nazzi: «Garlasco? Un caso difficile da comprendere. Ci sono pochi dati oggettivi e un’enorme costruzione mediatica intorno»

Per chi segue la cronaca nera è una voce e un autore inconfondibile. Abbiamo intervistato Stefano Nazzi sul palco del Vanity Fair Stories e ci ha detto cosa pensa di alcuni dei casi più discussi degli ultimi anni.

Perché siamo così tutti ossessionati dalla cronaca nera?
«Siamo ossessionati perché un po’ ci fanno ossessionare. Nel senso che se ne parla veramente tanto. Un po’ perché ci incuriosiscono le cose che troviamo meno spiegabili per noi, le più lontane anche dal nostro modo di vedere la vita. La domanda che mi pongo spesso, quando scrivo le storie è: “Come è possibile che una persona arrivi a fare determinate cose?”».

E riesce a darti una risposta?
«A volte sì, a volte ti rendi conto che una risposta non c’è. Certe azioni terribili che vengono da un vuoto pneumatico, da una mancanza di rispetto per la vita e per gli altri. Hanno origini da un’assenza totale».

Hai un modo di raccontare lontano dalla spettacolarizzazione, quasi documentaristico, ma c’è qualche storia che emotivamente ti ha toccato profondamente?
«Tutte, nel senso che non è che siccome io scelgo di essere un tramite della storia e non protagonista, non provi emozioni. Le storie che riguardano ovviamente i bambini sono quelle che ti toccano di più. E poi colpiscono particolarmente quelle in cui oltre alla vittima, ci sono vittime collaterali: persone magari coinvolte che non c’entravano niente e la cui vita sarà rovinata per sempre. Penso, ad esempio, al delitto di Arce per cui è ancora in corso il nuovo processo in Corte d’Appello. In questo caso un uomo si è fatto 17 mesi di carcere additato come l’assassino per poi essere assolto in tre gradi di giudizio».

Dolori che non finiscono…
«Non è vero che poi il tempo guarisce tutto, ci sono delle cose che non passano mai e ci sono storie in cui il dolore si espande con cerchi concentrici come un sasso gettato in uno stagno. Storie che non riescono a trovare una soluzione, una definizione giudiziaria anche quando penso alla vicenda di Giulio Regeni per cui i genitori da dieci anni si battono contro un muro di gomma che è quello costruito dalle autorità egiziane. Quando c’è una verità storica, palese, acclarata che però non riesce a emergere dal punto di vista giudiziario».

A proposito di storie che non finiscono mai. In un’altra intervista mi hai detto che il caso di Garlasco è il caso in cui le indagini sono state fatte peggio e ora sono state riaperte. Quindi?
«Ripeto, le indagini di Garlasco sono state fatte peggio in assoluto. Le indagini iniziali, l’approccio alla scena del crimine. Quello che è successo da alcuni mesi a questa parte è molto difficile da inquadrare perché da una parte ci sono i dati concreti e oggettivi che sono pochissimi, dall’altra c’è una costruzione mediatica che invece è enorme. Non so chi ha coniato il termine soap crime ma si addice perfettamente alla vicenda di Garlasco. Siamo bombardati di notizie a raffica, di informazioni che poi diventano un’altra cosa. Pensiamo solo al famoso DNA di ignoto 3. Ne hanno parlato per giorni tutti i media e poi si scopre che era una contaminazione. Diventa difficilissimo distinguere quali sono i dati oggettivi, concreti, verificabili e lo capiremo solo a conclusione delle indagini, quando e se verrà chiesto un rinvio a giudizio».


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