“Starbucks ha spostato in Svizzera 1,3 miliardi di profitti per pagare meno tasse”. Il rapporto sulle pratiche fiscali del colosso del caffè
La multinazionale Usa del caffè Starbucks nell’ultimo decennio ha trasferito in Svizzera 1,3 miliardi di profitti in modo da ridurre il proprio carico fiscale. È la conclusione a cui arriva un rapporto del Centre for international corporate tax accountability and research (Cictar), che ha esaminato i bilanci del gruppo trovando “forte evidenza” che “non sta pagando la sua giusta quota di tasse nei Paesi in cui i consumatori acquistano le sue bevande al caffè”. Il tutto attraverso quello che sembra uno schema di trasferimento degli utili alla filiale elvetica Starbucks Coffee Trading Company Sarl (Sctc), responsabile del programma di verifica dell’”approvvigionamento etico” della materia prima nei Paesi produttori. Non un comportamento illegale, spiega il centro di ricerca australiano, ma un notevole controcanto rispetto alle pratiche di fair trade che il gruppo rivendica e un esempio del ruolo dannoso della Svizzera come paradiso fiscale per la compravendita di commodity (in questo caso il caffè) a condizioni fiscali estremamente agevolate, cosa che sottrae prezioso gettito agli altri Stati. E la nuova tassa minima globale del 15% non cambierà le cose.
Il Cictar, nel report di 39 pagine pubblicato qualche giorno fa, evidenzia come “quasi nessun chicco di caffè fisico” transiti in Svizzera. Eppure la Sctc, basata a Losanna nel cantone di Vaud, acquista tutto il caffè utilizzato dal gruppo, 800 milioni di libbre l’anno, per poi rivenderlo agli stabilimenti interni di torrefazione degli Usa e del resto del mondo dove si svolge la tostatura. Transazioni che fanno sì che i profitti vengano appunto trasferiti da giurisdizioni ad alta tassazione a quella svizzera, dove le aliquote sono molto basse.
Lo schema è in gran parte già noto: nel 2012 Reuters aveva per esempio descritto nel dettaglio come la sussidiaria britannica del gruppo avesse riportato perdite per 25 milioni di sterline mentre versava corpose royalty alla controllata olandese Starbucks Coffee EMEA BV, società madre di Sctc, utilizzava prestiti intra-gruppo per spostare su altre società il pagamento di 2 milioni di sterline di interessi e faceva acquistare i chicchi dalla società svizzera. Nel 2021 il Guardian ha dato conto di come la multinazionale di Seattle avesse dichiarato in Gran Bretagna un rosso da 100 milioni di sterline tra 2010 e 2021. Nel frattempo anche la Commissione Ue ha indagato su presunti aiuti di Stato dell’Olanda a Starbucks e sull’aumento di prezzo applicato dalla Sctc alle torrefazioni rispetto al costo d’acquisto dai produttori senza apparenti aumenti delle spese operative che lo giustificassero. Ma sul primo fronte la Corte di Giustizia Ue ha dato torto a Bruxelles, perché non è stato provato un vantaggio indebito, mentre per quanto riguarda la filiale svizzera tutto è caduto nel vuoto essendo fuori dalla giurisdizione dell’esecutivo Ue.
Cosa è successo da allora? “Ulteriori prove” raccolte dal Cictar “sembrano dimostrare che Starbucks continui a utilizzare questo schema di trasferimento degli utili”, scrive l’organizzazione. Sctc rimane responsabile dell’approvvigionamento dei chicchi di caffè verde attraverso il programma C.A.F.E Practices e tra 2011 e 2021 – come si può ricostruire dai bilanci annuali della società madre – ha registrato profitti compresi tra 125 e 150 milioni di dollari l’anno per un totale di 1,3 miliardi. Nel 2021 Starbucks Coffee EMEA B.V. ha smesso di riportare i dividendi ma “fino al 2023 era una sussidiaria della britannica Starbucks EMEA Ltd, i cui rapporti annuali indicano che ha continuato a ricevere dividendi in in linea con (o leggermente superiori a) quelli che la Starbucks Coffee EMEA B.V. olandese aveva ricevuto da Sctc”. Insomma, pur mancando informazioni finanziarie aggiornate, il flusso di dividendi “suggerisce fortemente che il sistema sia rimasto attivo dal 2015 ad oggi”. Come dimostrerebbe anche il fatto che a partire dal 2010 al 2017 il gruppo ha registrato un ammontare crescente di utili non distribuiti, segno che ha evitato di riportali degli Usa per ridurre il carico fiscale. Poi, nel 2018, il Tax Cuts and Jobs Act della prima amministrazione Trump ha consentito di rimpatriare i guadagni esteri a condizioni di favore e anche il gruppo del caffè sembra aver colto l’opportunità, visto che a partire da quell’anno (seppure sotto una diversa classificazione contabile) emerge una riduzione sostanziale dei profitti offshore.
La global minimum tax negoziata in sede Ocse, accordo da cui Donald Trump ha deciso di sfilare gli Usa, sposta poco. Perché la Svizzera ha varato la propria top-up tax pari alla differenza tra aliquota effettiva e livello minimo del 15% e in questo caso, ricorda il Cictar, le nuove regole non consentiranno a Paesi terzi di recuperare le tasse perse sfruttando il suo sistema molto favorevole. In aggiunta, il meccanismo dei crediti di imposta rimborsabili fa sì che l’effettivo esborso da parte delle multinazionali sia notevolmente ridimensionato.
Il comportamento che emerge dal rapporto è “probabilmente legale”, è la conclusione dei ricercatori, ma “rivela che Starbucks è tutt’altro che l’azienda etica e responsabile che pretende di essere. L’elusione fiscale da parte di Starbucks e di altre multinazionali ha conseguenze reali sulle persone e sulle comunità di tutto il mondo”. Starbucks, interpellata dal Cictar, ha risposto che le accuse “non riflettono accuratamente il modello aziendale e il modo in cui diverse parti della nostra attività contribuiscono al successo dell’azienda” e assicurato che “versa livelli di tasse adeguati e corretti in tutte le giurisdizioni in cui opera e collabora in modo proattivo con le autorità fiscali per informarle del suo modello aziendale e delle relative implicazioni fiscali”.
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