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Serve una meta per Kiev e Tel Aviv


Serve una meta per Kiev e Tel Aviv

Come si può non essere d’accordo oggi che cade l’anniversario del pogrom del 7 ottobre con l’intervento militare condotto da Israele per liberare il popolo Palestinese dal giogo di Hamas? O, ancora, come non si possono non condividere le ragioni dietro l’operazione avviata in Libano che sicuramente cura gli interessi del governo di Gerusalemme ma nel contempo può creare le condizioni per allentare la morsa nella quale Hezbollah ha stretto il Paese? Ed, infine, come non si può non guardare con attenzione il tentativo di arginare l’aggressività della teocrazia autoritaria degli ayatollah, premessa imprescindibile per esplorare ogni ipotesi di pace duratura in medio-oriente e per favorire chi si batte a Teheran per avere un Iran democratico? La Storia ci insegna che le dittature spesso crollano dopo dei rovesci militari, basta ricordare la caduta del muro di Berlino sei mesi dopo la sconfitta dell’Unione sovietica in Afghanistan.

Stesso discorso si può fare per l’Ucraina. Come si fa a non essere solidali con un popolo che sta cercando di salvaguardare la propria libertà e la propria autonomia di fronte alle mire espansionistiche e nostalgiche della Russia? Come si fa a non solidarizzare con una nazione data per morta, che lo Zar considerava un’espressione geografica più o meno come Metternich l’Italia poco meno di 200 anni fa? Come si fa a non avere un moto di ribellione di fronte agli eccidi che si commettono in quella terra che è un pezzo d’Europa?

È difficile che un sincero democratico – di destra, di sinistra o di centro – non la pensi in questo modo. Solo che di buone intenzioni è lastricata anche al strada per l’inferno e anche qui c’è un ma che consiste nell’individuazione di una meta, di un obiettivo, di un epilogo. Non è più il tempo di guerre che durino cent’anni come secoli fa, ma neppure vent’anni tanto durò il conflitto vietnamita nell’ultimo scorcio del 900. Se non si immagina una via d’uscita Gerusalemme e Kiev rischiano di perdere la simpatia, la solidarietà che hanno suscitato anche nei più sfegatati fans. Il mondo d’oggi è facile a stancarsi dei leader politici, dei divi del cinema e addirittura delle rockstar, figurarsi delle guerre. Ed è cieco chi non vede i segnali che lo dimostrano, che spuntano qua e là e si moltiplicano: Israele nell’immaginario di pezzi dell’opinione pubblica occidentale si sta trasformando da nazione perseguitata in nazione aguzzina. Ci sono i sintomi tragici di un ritorno all’antisemitismo anche in paesi che sono culle di democrazia come gli Stati Uniti. Per cui pur comprendendo la reazione dello stato ebraico all’eccidio del 7 ottobre di una anno fa e l’obiettivo di garantire che una tale tragedia non si ripeta, Netanyahu, o chi per lui, deve individuare appunto una meta come Mosè tremila anni fa. E visto che il pomo della discordia, la scintilla che destabilizza il Medio Oriente resta sempre la questione palestinese, dopo aver liberato quel popolo da Hamas, Israele è pronta a garantirgli uno Stato, è pronta ad accettare la dottrina dei due popoli, due Stati? Se l’obiettivo fosse questo ciò che sta accadendo in quella terra martoriata potrebbe essere accettato da molti se non da tutti per un fine più grande, per una pace duratura.

Di una meta ha bisogno anche l’Ucraina. Esattamente sul Giornale del 7 ottobre di due anni fa azzardai – forse per primo – l’ipotesi di un’intesa, magari tacita, per arrivare ad una tregua che consisteva nella rinuncia da parte di Kiev dei territori conquistati dai russi in cambio di un ingresso nella Nato che garantisse la sua democrazia e la sua indipendenza per il futuro. Scrivevo : «In questo modo Kiev perderebbe sì un pezzo di territorio, ma il suo futuro sarebbe direttamente garantito dai dispositivi dell’Alleanza Atlantica». Da allora n’è è passata dell’acqua sotto i ponti, portandosi dietro tanti lutti, tanti cadaveri, tante distruzioni. Inutilmente: l’Ucraina non ha riconquistato i territori persi ma addirittura rischia di perderne degli altri. Nel frattempo la solidarietà nei suoi confronti si è affievolita e gli alleati mostrano stanchezza.

In più alla Casa Bianca rischia di arrivare un inquilino che non nutre nessuna antipatia verso Putin. Leggo sul Financial Times che quell’ipotesi si sta facendo largo: forse è arrivato il momento che Zelensky si metta un mano sulla coscienza e individui una meta.


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