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Separare le carriere, questa sì che è la vera urgenza che assilla la giustizia italiana!

Secondo l’art. 104 della Costituzione, la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Esattamente il contrario di quanto avverrebbe se passasse il principio della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante voluto da questo governo che, al di là delle chiacchiere, ha l’unico scopo evidente di annullare il principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte e di sottoporre al potere politico l’ufficio del pm titolare dell’azione penale.

Distinzione che, in realtà, già risulta abbondantemente attuata da leggi più o meno recenti. Come opportunamente ricorda Nello Rossi (in un articolo del 2023 su “Sistema Penale”), la riforma Castelli sin dal 2006 limitava drasticamente il passaggio delle funzioni. E, più di recente, la famigerata legge Cartabia del 2022 ha ulteriormente ridotto questi spazi, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una sola volta nel corso della carriera, entro 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni, peraltro con pesanti limitazioni.

Altro che “porte girevoli”, lamentate dai fautori della riforma: tanto è vero che i cambi di funzione dopo queste leggi sono stati inferiori all’1%.

In più, occorre considerare che, in realtà, già oggi l’ufficio del pm è soggetto a un regime organizzativo gerarchico che non esiste per il giudicante, facente capo alla figura del Procuratore cui devono rapportarsi i Sostituti uniformandosi alle sue indicazioni ed al suo programma, pena la loro revoca. Così come diversa è la imparzialità richiesta ai pm i quali nella fase delle indagini sono già obbligati a svolgere anche “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (art. 358 c.p.p.).

In questo quadro sommariamente delineato, quindi, appare evidente che non vi è alcun motivo per separare ulteriormente le funzioni inquirenti da quelle giudicanti e che la riforma voluta da questo governo ha, in realtà, come già abbiamo detto, altri obiettivi tipici di un sistema che non tollera poteri indipendenti. Indebolendo, non a caso, l’organo di autogoverno della magistratura che viene sdoppiato in due Csm creati addirittura con sorteggio fra i magistrati. Del resto, oggi non è certo questa la vera urgenza che assilla la giustizia italiana! La vera urgenza è la durata dei processi che, di certo, non ha nulla a che vedere con la riforma proposta. Anzi, in linea teorica, appare evidente che più si complica il funzionamento della magistratura più aumentano i tempi dei processi con relative prescrizioni.

Su questo blog ho già parlato abbondantemente della figura del pretore che, fino al 1989, addirittura assommava in sé le funzioni requirenti e quelle giudicanti: come pm leggeva la notitia criminis e decideva se archiviare, fare indagini o andare direttamente a giudizio. Ma, quando si arrivava al dibattimento, cambiava cappello e faceva il giudice, senza farsi condizionare affatto dal suo operato precedente da pm, e giungendo, pertanto, ad una sentenza in base alle risultanze dibattimentali.

E chi, come il sottoscritto, ha esercitato le funzioni di pretore sa bene che era del tutto naturale all’epoca compenetrarsi a fondo e con la massima onestà nel ruolo che di volta in volta svolgeva, anche a costo di sconfessare quello che si era fatto prima. Peraltro, con notevole risparmio di tempo in quanto, facendo tutto una sola persona, le procedure erano molto più veloci e meno farraginose.

Con questo non voglio dire che occorre tornare ai pretori, cui, peraltro, si devono negli anni 70 importanti inchieste avviate di ufficio a tutela di beni collettivi come ambiente, tutela della salute dei lavoratori, alimenti ecc., senza che si levassero, come oggi, sdegnate voci contro questa integrale commistione di funzioni.

Voglio solo dire, invece, che quello che conta per la indipendenza del magistrato non è la sua formale collocazione e la sua carriera più o meno separata, conta la sua professionalità, la sua onestà e la sua buona fede, nella piena consapevolezza che il suo compito, in ogni caso, a prescindere dal ruolo svolto, non è di ottenere una condanna o una assoluzione ma di fare giustizia con riferimento al caso concreto. Terreno su cui questa riforma costituisce un gravissimo passo indietro.


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