“Separare Chrome e Android”: gli Usa contro Google nella causa antitrust del secolo
ROMA — È scontro aperto, in tribunale e non solo, tra il governo americano e Google. Dopo che la corte ha stabilito che il gigante digitale esercita un monopolio illegittimo sul mercato della ricerca, mercoledì il dipartimento di Giustizia, cioè la pubblica accusa nella causa antitrust del secolo, ha proposto un ampio ventaglio di rimedi per ristabilire la concorrenza. Tra questi anche il bersaglio grosso, lo spezzatino della società, con l’obbligo di vendere il suo browser Chrome e – se necessario – pure il sistema operativo Android.
Ipotesi a cui Google ha risposto subito con un post del suo responsabile legale Kent Walker, definendola “sconcertante” e accusando il governo di “un interventismo radicale che danneggerebbe i consumatori, le aziende e la leadership tecnologia americana”.
Stati Uniti contro Google è il più avanzato tra i vari processi Antitrust intentati dall’amministrazione Biden contro i campioni di Big Tech, lasciati crescere negli anni fino a costruire tentacolari e triliardari imperi del web. La scorsa estate il giudice Amit Mehta ha dato ragione all’accusa, stabilendo che Big G ha costruito e mantenuto il suo monopolio nella ricerca (il 90% del mercato) anche attraverso pratiche illegittime per escludere i concorrenti, come l’accordo miliardario con Apple e altri produttori per fare della sua barra di ricerca la soluzione predefinita sui loro smartphone.
Sarà lo stesso giudice Mehta a stabilire i rimedi, che devono essere efficaci ma proporzionali, e per farlo si è dato vari mesi. Nel frattempo le parti sono autorizzate a presentare le loro proposte. Quella tutto sommato meno dolorosa per Google, alla quale di fatto ‘apre’ nella sua replica, è vietare accordi di esclusiva come quello stretto con Apple. Ma non è detto sia sufficiente. Di certo non lo pensa il dipartimento di Giustizia, che ne ha suggerite anche altre ben più impattanti.
Il principio dietro al breakup, lo spezzatino, è indebolire il controllo sui dati degli utenti – petrolio dell’era digitale – con cui Google alimenta il proprio algoritmo di ricerca e il business miliardario della pubblicità, lasciando la concorrenza a secco. Anche per evitare che la stessa concentrazione si riformi sul mercato dell’Intelligenza artificiale, che con i dati è addestrata. Non a caso, nel suo post la società cita proprio l’impatto sugli investimenti in IA, «l’innovazione più importante del nostro tempo», oltre che quello sulla privacy degli utenti.
Lo smembramento cambierebbe faccia al web e darebbe un bel colpo ai conti di Goolgle/Alphabet, che non a caso ieri in Borsa è arrivata a perdere quasi il 6%, peggior seduta da dieci mesi. Divide anche gli esperti di Antitrust, tra chi lo ritiene troppo estremo e chi l’unico rimedio possibile a un estremo male. Una soluzione più innovativa, ma altrettanto impattante, sarebbe l’obbligo per Google di condividere i dati (gratis) con i concorrenti e dare in licenza (a pagamento) i risultati di ricerca.
Al di là delle questioni tecniche, legali ed economiche, però, sull’intero processo – e su tutti quelli contro Big Tech – pende un’enorme incognita politica di nome Trump. Pur considerata l’imprevedibilità del presidente eletto, quasi tutti si aspettano un approccio antitrust ben più conciliante di quello di Biden, che nella sua squadra ha diversi paladini del libero mercato.
E se è vero che tra i fedeli di Trump è molto forte l’avversione verso Google, con lo stesso vice Vance che ha parlato di spezzatino, quell’avversione riguarda molto più una presunta capacità di orientare l’opinione pubblica (in senso progressista) che il dominio dei mercati.
Il riferimento di Google a un indebolimento della “leadership americana” e al rischio che i dati finiscano nelle mani di società straniere sembra proprio un tentativo di parlare a chi vuole rendere l’America great again. Com’è già accaduto, un cambio di orientamento dell’amministrazione potrebbe ammorbidire l’accusa, rallentare il processo e magari favorire un accordo extragiudiziale che il vanesio Trump sarebbe ben contento di firmare alla Casa Bianca. Il grande ritorno dell’Antitrust, come è stato definito, potrebbe essere già finito.
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