“Senza voler morire”, di Yuleisy Cruz Lezcano.
(Dedicata ai due uomini morti sul lavoro, Veternigo, 4 agosto 2025)
Uso la poesia come uno strumento di denuncia e umanizzazione, perché le parole, se lasciate libere, possono graffiare i muri dell’indifferenza. Davanti a tragedie come la morte dei due operai a Veternigo due giovani uomini inghiottiti da una fossa biologica mentre lavoravano, io non posso restare in silenzio. Non posso permettere che la loro fine sia archiviata solo in un verbale, che diventino solo due numeri, due righe fredde in una cronaca di passaggio. La poesia, per me, è corpo che sanguina e voce che si ostina. È respiro rubato che ritorna in forma di canto, per chiedere giustizia là dove il rumore delle macchine ha zittito ogni grido. Scrivere è un gesto umano, politico, necessario: significa restituire nomi e carne a chi è stato ridotto a “vittima”, significa riconoscere la bellezza interrotta di una vita. Significa gridare con dolcezza, piangere con dignità, tenere aperte le ferite che il mondo preferirebbe ignorare. Scelgo la poesia perché non ha padroni né tempi da rispettare: può attraversare l’aria e posarsi negli occhi di chi legge, può diventare eco nelle coscienze. Scrivo per dire che non si può morire di lavoro. Scrivo per ricordare che la morte sul lavoro non è una fatalità, ma una vergogna che ci appartiene tutti, come collettività distratta e complice. E solo l’arte, quando non è decorazione ma urgenza, può ancora parlare nel linguaggio della verità.
Yuleisy Cruz Lezcano
Morire,
è lasciare il respiro in sospeso
mentre ancora cercava la sua direzione,
mentre ancora sognava di diventare canto,
vento, fiore d’aria tra le voci del mattino.
Morire
è sciogliere il fiato dai suoi incessanti giri,
liberarlo dalle tossine, dai rumori metallici,
perché possa salire lieve
e cercare altrove il profumo
di luoghi non segnati da numeri e nebbie,
da tabelle e silenzi ordinati.
Morire
senza il tempo di aprire il cuore
sul corpo della vita,
senza potersi voltare e dire:
“ci sono ancora”,
senza nemmeno il brivido
che somiglia a un saluto.
Morire in una fossa
che non conosce perdono,
in un luogo gufato,
dove anche la luce
ha paura di guardare.
Con occhi inchiodati al dovere,
con mani occupate da ordini e ferri,
con il nome impigliato nei turni.
Morire come un fiore d’asfalto,
strappato prima di potersi aprire,
prima che la giovinezza abbia finito
di imparare la sua forma.
Morire afferrati dallo spirito muto della morte,
trascinati giù come acqua perduta,
senza una voce a fermare il tempo,
senza una scala,
senza una mano.
Morire mentre il lavoro continua
a battere sordo, cieco, uguale
sul dorso della vita.
Morire, assurdamente,
mentre si era ancora pieni
di tutto ciò che non si è riusciti a dire.
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