Seneca e Faust a confronto per riflettere sull’Occidente
Non è cosa facile collocare fisicamente, in uno stesso luogo, Seneca e Faust. Il primo, filosofo romano, drammaturgo e uomo pubblico, «sovrano di quell’universo morale che per due millenni e mezzo è fiorito negli animi dei saggi di tutto mondo». Figura leggendaria, l’altro, cuore di racconti e di opere musicali, passato dall’abbozzo cinquecentesco in versi di Marlowe alla consacrazione attraverso il dramma di Goethe a inizio Ottocento. Si ritrovano uno di fronte l’altro nel libro di Andrea Carandini – Seneca e Faust. Dialoghi sulla morale tra origini e decadenza, Rubbettino, pagg. 340 -a discutere di antichità e modernità, mossi dall’immaginazione di una mente appassionata il cui corpo trova riposo, a cosa fatta, tra floridi acanti sotto una volta semicrollata del Palatino («guarda un cielo che ora si fa nero, lanciando fulmini argentei, e ora s’illumina, trafitto da aurei raggi»). Quale altro posto, se non quello, sarebbe del resto meglio assimilabile al celebre archeologo? Nei suoi libri Carandini ha sempre sciolto il rigore scientifico in una narrazione fresca della storia e la vita quotidiana di Roma. Ora però è diverso. Ora serviva avventurarsi in un terreno impervio, e forse più esistenzialmente pressante. La crisi dell’uomo contemporaneo tra racconto, saggio e confessione.
«Un’ombra della storia come me che dialoga con un personaggio della fortuna artistica così distante? Non sarà facile intendersi, sfidando il tempo in modo così sfacciato». Seneca non si nasconde. Incarna la razionalità morale dell’antichità classica, la fiducia nella ragione, nella misura e nella virtù individuale. Faust invece esprime in toto l’uomo moderno, inquieto, desideroso di potere e conoscenza, ma anche segnato da un vuoto spirituale, figlio del disincanto e dell’ambizione. Il confronto tra i due si offre come ideale espediente narrativo per riflettere su ciò che si è perso nel passaggio tra epoche, e su quanto del pensiero lontano possa ancora parlare all’oggi. L’antico ha elaborato un sapere del limite, fondato su un’idea di armonia cosmica, mentre il moderno ha preferito l’espansione indefinita, l’accelerazione, la sperimentazione del nuovo. Seneca, accompagnato nel corso dell’esistenza da grande potere e immensa ricchezza, conobbe certamente da vicino le lusinghe dei vizi. Tuttavia la sua vita fu costantemente orientata alla ricerca della saggezza, un traguardo (forse!) raggiunto negli anni del suo ritiro testimoniato dalle sue Lettere a Lucilio. La scelta di Faust come controparte moderna di Seneca si dimostra cruciale poiché (auto)rivela come il cuore del problema sia la natura del desiderio umano e il suo rapporto con la tecnica, la conoscenza e la trascendenza. Il Faust di Carandini è un essere complesso, tragico, simbolo dell’Occidente che ha smarrito il confine tra creazione e distruzione.
Chiara in ogni caso nelle pagine è la denuncia del carattere essenzialmente “amorale” del progresso tecnico-scientifico contemporaneo, nei termini di un avanzamento materiale a cui non corrisponde crescita interiore e che anzi, spesso, muoversi in direzione contraria. «La tecnica deve eseguire tutto ciò che è possibile all’infinito – similmente al più perverso appetito –, mai dovendo rispondere del proprio funzionare. Deve produrre mezzi che superino instancabilmente sé stessi, riducendo la vita a martellanti e assillanti aggiornamenti dei suoi apparati». La critica affidata per procura alle parole di Faust si estende a una sorta di anestesia del gusto collettivo: quasi nessuno appare più capace di accorgersi del bello, di assorbirlo, di farsene travolgere. Per cui «masse immani visitano monumenti che non le contengono e di cui ignorano il significato, guardando esclusivamente nel congegno che fotografa: clic, fatto anche il Colosseo!». Quelle tracce del passato alla cui salvaguardia (e valorizzazione) Carandini ha dedicato moltissime energie, da presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e del Fondo per l’Ambiente Italiano per quasi dieci anni.
Il libro si presenta in definitiva come un atto di resistenza culturale e morale: un tentativo di restituire senso a un mondo ridotto a costellazioni di schegge. Nel quale «la tranquillità è diventata frenesia e i contatti tra le persone durano istanti, dalla voce, al messaggino, a un volto che sorride». L’archeologia, lungi dall’essere disciplina distante, diventa uno strumento di interrogazione dell’attualità. Il passato non come rifugio nostalgico ma laboratorio di scoperta. Nello scavo si rinviene anche l’insidia nella politica corrente infarcita di populismo secondo cui lo scopo diventa adulare la gente non per farne l’interesse ma per avvantaggiare chi detiene il potere. «Il tiranno, già incorporato in un uomo, è consustanziale ormai alla tecnica, che nella sua obbligata onnipotenza vuole solo sé medesima, subordinando il resto al proprio eccesso». Chissà se Faust pensasse a un epigono in carne e ossa al di là dell’Oceano due secoli dopo.
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