Rkomi: «Sono cresciuto senza un padre, nella musica cerco un “risarcimento”. Sanremo? Ho osato troppo»
Dischi come Decrescendo sono rari nella musica italiana. Ricordate Rkomi all’ultimo Sanremo, dove si chiedeva se questa fosse «musica o burocrazia»? Lì per lì non è stato capito (penultimo), ma ecco la risposta: la sua, nel dubbio, non è burocrazia. Si uniscono i puntini. Diciotto canzoni che sono «lettere rivolte a tante persone della mia vita», dagli amici dell’adolescenza come Tedua, con cui ha cominciato a sognare, alla madre, dal quartiere in cui è cresciuto – Calvairate, periferia di Milano – al padre che non ha mai conosciuto, andato via di casa quando lui aveva solo un anno. «Ho avuto altri padri e, in parte, ho fatto io l’ometto di casa», dice ora. C’è tutto: la droga, i quartieri popolari, la violenza domestica, ma anche la musica come una salvezza. L’infanzia e la gioventù prima del successo, in ogni aspetto. Mirko Manuele Martorana, il suo vero nome, più che Rkomi. Saranno i trent’anni, sarà la voglia di chiudere cerchi, sarà semplicemente che dopo l’enorme successo delle hit del precedente Taxi Driver (del 2021, in mezzo c’è stato No Stress con Irama) aveva voglia di qualcosa di diverso, tra rap, pop e cantautorato. «A volte mi sembra che non sappiamo più pensare in grande», confessa. «Io stesso forse, con la forma, non mi sono spinto troppo in là: non me la sono sentita per esempio di fare canzoni da quasi cinque minuti di durata. Ma per i temi, almeno per chi mi conosce in maniera superficiale, sarà spiazzante».
Perché è tornato alla sua infanzia?
«È la decrescita del titolo, appunto. Tornare alle radici per capire chi si è. Venivo da due dischi in cui avevo scelto di non guardare il buio dentro, fare finta di niente, al contrario dei primi due, in cui invece il buio giocava una parte preponderante per pura necessità di sfogo. È un disco “onesto”: volevo parlare di certi aspetti del mio passato, liberarmene».
Ha fatto terapia per questo percorso?
«In realtà no. L’ho fatta dai 18 ai 24 anni, perché era inevitabile: ho capito tanto di me, ma poi siamo finiti a un punto morto, com’è normale che sia, e ho smesso. Ho ripreso pochi mesi fa, a disco quasi pronto. Mi è venuto naturale, nel mezzo, scrivere così».
Nella copertina c’è lei, da bambino, con altri della sua classe. È l’unico che non sorride.
«Mi piace il contrasto: davanti al flash mettiamo il meglio di noi, c’inventiamo un sorriso, dalle foto sembra tutto ok. E invece ho voluto raccontare anche quei momenti che non finiscono nelle fotografie».
Il disco si apre con una scena forte: lei che guarda il compagno di sua madre picchiare sua madre.
«Era il primo peso che volevo togliermi. Avevo nove anni, ho provato una rabbia senza senso, sarei voluto intervenire. Mi ha fermato mio fratello grande».
Non è scontato, non crede? Un bambino potrebbe anche pensare che quella è la normalità.
«Non lo so, non è il mio caso. Sarà che quella persona, in qualche modo, era entrata nella nostra famiglia, la vedevo come esterna. Non ho mai conosciuto mio padre, se n’è andato che avevo un anno, ma non mi sono mancate figure di riferimento maschili forti e sane: uno zio, ma soprattutto mio fratello più grande, che per me è stato una sorta di padre. Forse mi ha voluto più bene di quanto ne abbia voluto a sé stesso».
È stato quello il giorno in cui è diventato grande?
«In parte sì, in parte lo ero già. Il fatto che mio padre non ci sia mai stato e che mio fratello, comunque, fosse più grande di me – e che quindi, a casa, ci fosse e non ci fosse – mi ha reso da subito l’ometto di casa. Non è stato facile».
Sua madre, sentendo la canzone, cos’ha detto?
«Mi ha capito. Abbiamo un bel rapporto, è empatica, ha realizzato quanto fosse importante, per me, parlarne. È una persona onesta. Ed è contenta se gli altri lo sono. Me lo chiede sempre: “Sei contento?”».
E lei?
«Certo che lo sono. Contento e stressato. Sono uno che vive l’ansia del proprio ruolo, dovunque. Se sono fidanzato, voglio essere il miglior fidanzato del mondo. Ma vorrei anche essere un grande artista, non voglio fare la fine di quei colleghi che, alla fine del loro viaggio, si ritrovano soli… con il proprio viaggio. Soli con i dischi di platino, ecco. Preferisco lasciare qualcosa alla gente e a me stesso. I soldi sono solo una parte del tutto».
In Non c’è amore parla delle sue difficoltà croniche nel costruire e mantenere relazioni.
«È stato un pensiero passeggero, esagerato: quando si guarda il passato, a primo impatto si hanno reazioni sbagliate. La verità sta nel mezzo, ma l’ho voluto tenere».
Cos’ha capito sulle sue relazioni?
«Che a volte ho sbagliato, mi sono comportato male: nei testi di oggi trovo tanta autoindulgenza e non mi piace, è raro che qualcuno si metta in gioco e pensi di aver sbagliato; ecco, io l’ho fatto. In generale, in amore come in amicizia, sono stato troppo poco diretto, così mi sono trovato ad avere rapporti più di facciata che altro. Gente che voleva compiacermi, per avere in cambio qualcosa. Ho imparato a essere più schietto e diretto: se ci si intende, ci si intende subito».
Decrescendo è anche la storia di un’adolescenza difficile, in cui conosce presto la droga.
«Ce l’avevo intorno, specie nel mio quartiere – anche se è ovunque e, se fossi cresciuto in un quartiere già agiato, magari l’avrei conosciuta anche prima. Per certi versi, e l’ho capito solo di recente, crescere lì è stata una fortuna: ero a 15 minuti dal centro ma in una zona popolare, ciò mi ha dato la possibilità di conoscere entrambe le facce della medaglia. Di capire, ecco, come va questo mondo. Per capire il resto, leggo e viaggio».
Sente ancora gli amici del suo quartiere?
«Come ci si sente a trent’anni: non tutti i giorni, non dividendo tutto come prima, ma ogni volta che ci si vede, per una cena, è come se non fosse passato mai il tempo. Anche con Tedua, con cui ho condiviso tanto da adolescente, è così».
Tra le collaborazioni, effettivamente, non c’è un nome pop che aiuti a scalare le classifiche, né un rapper di un’altra generazione. C’è lei, semplicemente, con i suoi amici.
«Sarebbe stato un controsenso, almeno per ora, cercare altro: Decrescendo significa tornare a quando si era piccoli e io ho cercato i compagni della mia generazione, da Izi a Bresh, da Ernia allo stesso Tedua. Molti di noi non hanno avuto un padre o una madre, siamo simili in questo. Non sono state classiche sessioni di studio, da una botta e via, per uscire la sera con il pezzo pronto. Ci siamo visti giorni su giorni, passato tanto tempo insieme a immaginare canzoni, com’era una volta».
Cos’è il successo per lei?
«Bella domanda. Chiunque sta su un piedistallo, sotto i riflettori, lo fa per un bisogno di comunicare, di essere compreso. È anche il mio caso: come tanti – non dico tutti, ma insomma – ho cercato a lungo un risarcimento, nella musica, che non è solo economico. E ora voglio sempre qualcosa di diverso. Tutti i miei dischi nascono da questi bisogno, anche Taxi Driver, che era più spensierato».
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