Riva, come evolve un mito?
«Falle belle». Due parole, un universo. Le pronunciò il bisnipote del maestro d’ascia Pietro Riva, che nel 1842 fondò l’omonimo cantiere navale nella piccola Sarnico, sulle rive del Lago d’Iseo. «Ebbene sì, Carlo Riva mi disse proprio così quando acquisimmo il marchio», racconta l’avvocato Alberto Galassi, amministratore delegato del Gruppo Ferretti che dal 2000 appunto detiene – tra gli altri – anche il brand Riva. «D’altronde, da italiani, siamo condannati alla bellezza». C’è l’estetica, certo, ma non solo. Dietro l’Aquariva e – soprattutto – l’Aquarama si nasconde un sogno che è incastonato nell’immaginario collettivo, un’immagine nitida che ancora oggi resta legata a doppio filo con lo slogan che ne contraddistinse il lancio, nel settembre 1962: «Sole, mare, gioia di vivere».
Ecco, passeggiando al Cannes Yachting Festival, dove Riva ha presentato quattro nuovi modelli (Aquariva Special, Riva Cento, Riva 58’ Capri e Riva 112’ Dolcevita Super), ci siamo chiesti quali siano i segreti per intervenire su un marchio così leggendario, senza tradirne l’eredità. È come un’operazione delicatissima, che entra nella sezione dei ricordi di ognuno e cerca di spingere quei profili leggendari verso nuove forme. Pensare che a Venezia, qualche anno fa, sul Canal Grande dominava un cartellone pubblicitario, con in alto la scritta Riva e sotto un pontile vuoto. Certificando che chiunque, pescando dalla sua banca dati, avrebbe saputo disegnare con la fantasia quella barca. Quindi, in che modo è possibile trasferire quel nome, che nella testa delle persone ha già una forma precisa, su altri tipi di barche? In sostanza, come evolve un mito?
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