Ritorno a casa, un fenomeno in crescita
Per anni abbiamo raccontato solo la fuga: cervelli, competenze, giovani ma il quadro si sta sfumando, perché accanto alle partenze cresce un controcanto: quello dei ritorni. Lo certifica lo Studio Tibaldo: il 60% degli italiani che rientrano lo fa spinto soprattutto da motivazioni affettive.
Famiglia, amici, relazioni: la geografia del cuore pesa più del portafoglio. E non è un caso che molte testimonianze raccolte da iniziative come Bentornata Italia! di Cheuropa insistano proprio su questo punto: il bisogno di esserci, di riannodare fili, di ritrovare un tessuto sociale che altrove non si è riusciti a costruire.
La nostalgia come motore
Nostalgia non è un vezzo romantico, è un motore concreto. C’è chi rientra perché dopo anni di cieli grigi nel Nord Europa sogna un clima mite; chi rivuole la convivialità mediterranea, il caffè al bar, la piazza come luogo di socialità. Anche la sanità pubblica italiana diventa, per chi ha vissuto negli Stati Uniti, un elemento decisivo: gratuita qui, spesso proibitiva oltreoceano.
Non sorprende che una parte degli intervistati abbia spiegato così la scelta: non potevano più fare a meno di quei servizi e di quella rete relazionale che in Italia diamo per scontati.
Il richiamo del lavoro e il peso del fisco
Il lavoro resta un driver forte, circa il 20% del campione Tibaldo è rientrato grazie a offerte professionali più vantaggiose: contratti più stabili, stipendi competitivi e prospettive chiare. Segnali di un’Italia che, almeno in parte, sta imparando a riconoscere il valore di chi porta nel bagaglio esperienze internazionali.
Gli incentivi fiscali completano il quadro: il 16% li indica come ragione principale del ritorno, mentre un ulteriore 29% li considera decisivi al momento della scelta. Il regime degli impatriati – anche nella versione ridotta post-2024 – resta uno strumento che pesa, con sconti dal 50% al 60% sull’imponibile Irpef per cinque anni. Non è la molla principale ma è l’acceleratore che rende più semplice decidere “quando” rientrare.
Giovani e competenze globali
Un altro filone riguarda i giovani. Dopo lauree e master all’estero, molti decidono di rientrare non per nostalgia ma per strategia: avviare la carriera in Italia, capitalizzando contatti e competenze maturati fuori. È qui che si gioca una partita cruciale: trasformare questi ritorni in un vantaggio competitivo.
Altrimenti, come mette in guardia un’analisi Intoo, il rischio è che chi rientra debba accontentarsi di posizioni inferiori a quelle ricoperte all’estero, vivendo il ritorno come una retrocessione più che come un’opportunità.
Il mondo non è più un Eldorado
C’è poi un elemento che emerge anche dalle cronache e dai numeri: il mondo stesso è cambiato. Gli Stati Uniti di Trump non sono più l’Eldorado che furono; le politiche restrittive sull’immigrazione, la burocrazia, il clima politico rendono più difficile costruirsi lì un futuro.
E anche in Europa il quadro non è roseo: il Nord, pur forte di mercati solidi, è percepito come meno inclusivo. Inchieste come quella recente de L’Espresso lo dimostrano indirettamente: 22 mila connazionali sono rientrati, ma nello stesso periodo 93 mila hanno spostato la residenza all’estero. Il saldo resta negativo, segno che restare fuori non è sempre facile, ma tornare in Italia non è ancora la scelta prevalente.
Una sfida da non sprecare
Il ritorno non è mai un gesto semplice: è una scommessa; porta con sé nostalgia e affetti, ma anche reti globali, competenze e visioni nuove. Un capitale umano che l’Italia deve saper accogliere e valorizzare, se non vuole trasformare i ritorni in nuove partenze.
Perché tornare è, sì, un atto d’amore. Ma perché diventi anche un atto di futuro serve un Paese capace di non sprecare questa occasione.
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