Ricostruire una Siria unita è la soluzione peggiore
La Siria che appare sulle mappe mondiali corrisponde al territorio ottenuto dalla Francia nel 1919, quando divise con i britannici i territori dell’Impero Ottomano sconfitto. Il Libano fu escluso da questa suddivisione, poiché i francesi preferirono governarlo separatamente per meglio proteggere le sue variegate popolazioni cristiane.
La Siria non fu mai concepita per funzionare come uno Stato unitario sotto il dominio della maggioranza arabo-sunnita. Alawiti, cristiani-ortodossi, drusi, curdi, armeni, ismailiti e sciiti arabi possedevano già identità nazionali (millet) riconosciute sotto il sistema ottomano. Questi gruppi non avrebbero mai accettato volontariamente il dominio della maggioranza sunnita, che spesso li considerava miscredenti o eretici. I francesi tentarono di affrontare queste tensioni definendo uno Stato alawita nel nord-ovest e uno Stato druso nel sud-est della Siria.
Ma quando i francesi rinunciarono al loro tentativo di controllare la Siria nel 1946, fu Shukri al-Quwatli, un arabo sunnita di una famiglia benestante, a diventare presidente del Paese. Non riconobbe i diritti dei millet e non discriminò le minoranze, ma inviò le truppe siriane a invadere Israele nel maggio 1948 in nome della solidarietà araba sunnita, insieme all’Emiro della Transgiordania e al Re d’Egitto. Sperava di conquistare la Galilea, perché i siriani avevano carri armati e artiglieria lasciati dai francesi, mentre gli ebrei avevano solo fucili, alcune mitragliatrici, un paio di obici antichi del 1906 e una grande determinazione.
La successiva sconfitta araba fu una terribile umiliazione, che provocò il primo dei molti colpi di stato della Siria quando il generale Husni al-Zaim si autoproclamò presidente nel marzo 1949. Governò solo per 137 giorni, ma stabilì precedenti duraturi: sebbene fosse a capo della guerra come capo di stato maggiore dell’esercito, incolpò i politici civili della sconfitta della Siria e, in secondo luogo, non era arabo ma curdo.
Nei successivi 21 anni, fino a quando Hafez al-Assad stabilì una dittatura che sarebbe durata più di cinquant’anni fino al suo improvviso crollo dei giorni scorsi, si succedettero 17 presidenti, inclusi tre anni di dominio egiziano sotto Gamal Abdel Nasser, allora incarnazione stessa del nazionalismo arabo. Nel 1958 Nasser era stato invitato a governare anche la Siria, in quella che divenne la Repubblica Araba Unita, perché l’élite siriana, ormai disperata per la stabilità, aveva rinunciato all’indipendenza.
Questo esperimento di unità araba durò tre anni e 219 giorni, abbastanza a lungo da insegnare all’élite siriana, sia civile che militare, che il dominio di un Egitto molto più grande ma molto più povero era molto costoso non solo per la Siria nel suo insieme, ma anche per loro stessi e le loro famiglie: una causa immediata del colpo di stato militare che sciolse la Repubblica Araba Unita il 29 settembre 1961 fu l’annuncio del trasferimento di un certo numero di ufficiali dell’esercito siriano a comandi oscuri nell’interno più remoto dell’Egitto.
Dopo di ciò, altri sei presidenti cercarono di governare la Siria, fino a quando Hafez al-Assad prese il controllo come dittatore militare nel novembre 1970 prima di nominarsi presidente nel febbraio 1971.
Con Hafez al-Assad non ci furono più incomprensioni sulla questione dell’etnia: era alawita e, quindi, solo nominalmente musulmano (gli alawiti bevono vino, celebrano la Vergine Maria e credono nella trasmigrazione delle anime) e si affidava in larga misura ai suoi compagni alawiti per controllare le leve del potere, dal comando delle squadriglie aeree e di ogni unità corazzata a portata di Damasco che potesse organizzare o fermare un colpo di stato, al servizio doganale che generava entrate in modo molto più affidabile delle tasse troppo facilmente evase, e la sempre più professionale polizia politica, che reclutava informatori in ogni parte della società siriana.
Fu il padre di Hafez al-Assad, Suleiman, a gettare le basi del successivo potere alawita sulla Siria, perché il 15 giugno 1926, insieme ad altri noti alawiti, inviò una lettera al primo ministro francese Leon Blum, per spiegare perché il suo popolo – per lo più contadini – non avrebbe mai potuto vivere sotto il dominio musulmano: «Lo spirito di odio e intolleranza affonda le sue radici nel cuore degli arabi musulmani verso tutto ciò che non è musulmano… Se la Francia permette la loro indipendenza, le minoranze in Siria saranno esposte a un rischio di morte e annientamento…».
A quel tempo, la Francia stava organizzando il suo esercito coloniale in Siria e con esso un’accademia militare. Con molti candidati tra cui scegliere – gli ufficiali potevano guadagnare salari regolari abbastanza buoni, una grande rarità nella povertà della Siria – i francesi ritennero prudente favorire i candidati alawiti, insieme a drusi, ismailiti e alcuni cristiani, tutti molto più propensi a essere leali alla Francia contro le richieste di indipendenza della maggioranza araba sunnita.
Fu il numero sproporzionato di alawiti nel corpo degli ufficiali a permettere a Hafez al-Assad di impadronirsi delle forze armate nel 1970, ma il regime di Assad padre e figlio fu in definitiva rovinato dalla trasformazione dei contadini alawiti di montagna in classe dirigente: i loro figli si trasferirono a Damasco e in altre città siriane per occupare posizioni governative lucrative o lavorare in aziende collegate allo stato, ed erano sempre meno disposti a servire come soldati, gendarmi e spie per proteggere il regime dai suoi nemici.
Per molti anni l’indebolimento degli alawiti fu mascherato dall’ascesa del potere dell’Iran: a Teheran, i governanti militanti sciiti che avevano combattuto contro Saddam Hussein e si erano opposti all’Arabia Saudita sunnita avevano bisogno di basi in Siria per rafforzare il loro esercito sciita, Hezbollah, in Libano e per rivendicare la leadership musulmana complessiva contro Israele. Scelsero quindi di accettare gli alawiti, estremamente eretici: l’imbarazzo fu ridotto dal successo di Hafez al Assad nell’aver costretto l’influentissimo religioso sciita libanese, l’Imam Musa al-Sadr, a riconoscere gli Assad e tutti gli alawiti come veri musulmani sciiti.
Quando la maggioranza araba sunnita, insieme agli insorti curdi e altri, si ribellò contro il regime di Assad in ogni parte del paese sotto l’impulso delle rivolte della «Primavera araba» iniziate nel dicembre 2010, fu il sostegno dell’Iran a permettere al regime di Assad di sopravvivere: le Guardie della Rivoluzione addestrarono reclute sciite dall’Irak e dall’Afghanistan per reprimere i ribelli della maggioranza sunnita in ogni città della Siria. Unità Hezbollah operarono per riconquistare città e quartieri, con il supporto di aerei siriani e caccia russi che si muovevano dalla base aerea di Khmeimim, sulla costa siriana.
Neanche questo fu sufficiente a sconfiggere gli insorti più determinati, che furono attaccati persino entro i confini di Damasco con cloro, solfuro e Sarin, un gas nervino estremamente letale.
Con questa prova della determinazione a resistere a tutti i costi, il regime sopravvisse per altri quattordici anni, fino a questi giorni, quando non ha potuto far nulla in seguito alla demolizione di Hezbollah da parte di Israele e alla sua netta vittoria aerea su Teheran. Il migliaio di ribelli fondamentalisti sunniti (ed ex Stato Islamico) di Hayat Tahrir al-Sham (la purezza della Siria) che è entrato ad Aleppo il 29 novembre, sarebbe stato facilmente fermato da un battaglione di Hezbollah, come già accaduto più volte. E nemmeno le Guardie della Rivoluzione iraniane sarebbero potute volare in aiuto per sostenere il regime dato che gli israeliani hanno vietato l’atterraggio anche degli aerei civili. Dopo l’attacco di Tel Aviv del 26 ottobre con un centinaio di caccia-bombardieri contro obiettivi molto vicini a Teheran a cui l’aeronautica iraniana non ha nemmeno provato a resistere, l’intero potere militare iraniano è stato smascherato e Assad è fuggito giusto in tempo per evitare una morte certa.
Considerato tutto ciò, i funzionari del Foreign Office, dello State Department Near East Bureau e del Quai d’Orsay francese, che già ora spingono per la ricostruzione di uno stato siriano unitario, naturalmente da far governare dalla maggioranza araba sunnita, dovrebbero fermarsi a riconsiderare la storia della Siria da quando i francesi ne abbandonarono la creazione nel 1946. Gli alawiti sono attualmente sconfitti, ma non i curdi nel nord-est, né i drusi nel sud-est, mentre i siriani che hanno maggiori probabilità di tornare dalla Turchia, e forse anche dal loro esilio europeo, sono per la maggior parte arabi sunniti, presumibilmente determinati a riaffermare la loro supremazia persa più di mezzo secolo fa.
La Svizzera accoglie le diverse preferenze della sua popolazione multietnica, multilingue e multireligiosa con 26 cantoni diversi, ognuno con il proprio governo, costituzione e lingua principale. L’ultima volta che alcuni svizzeri hanno preso le armi l’uno contro l’altro è stata nel 1847, ma il cantone più recente, il Giura di lingua francese, ha acquisito l’indipendenza solo nel 1979, per secessione dal cantone germanofono di Berna.
Nonostante le evidenti differenze tra la scintillante Svizzera e la Siria devastata dalla guerra, il suo accoglimento delle diversità a livello locale è molto migliore di qualsiasi tentativo di quote etniche/religiose a livello nazionale, soprattutto perché in Siria ogni città ha una propria cultura urbana condivisa dalla maggior parte delle etnie e religioni.
Forse è meglio lasciare che i siriani ricostruiscano il loro stato come meglio credono, ma se i
funzionari occidentali dovessero intervenire, non dovrebbero automaticamente favorire uno stato unitario e centralizzato, soluzione purtroppo condivisa anche dai funzionari americani che provengono da uno stato confederale.
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