Ricorrere agli asset russi per un prestito riparatore a Kiev: il dilemma dell’Unione europea da risolvere entro Natale
Questo articolo sugli asset russi è pubblicato sul numero 50 di Vanity Fair in edicola fino al 9 dicembre 2025.
Ogni tanto arriva una spinta. Prima il cancelliere tedesco a fine settembre ha rilanciato l’idea di mobilitare le risorse russe congelate per la difesa di Kiev e l’industria bellica europea. Due mesi dopo, un editoriale del Financial Times dà la sveglia all’Ue: Trump vi lascia fuori dalle decisioni, «europei giocatevi la carta asset». Ma se si tratta di toccare i circa 180 miliardi della banca centrale russa depositati nelle casse di Euroclear a Bruxelles, l’Europa cammina sulle uova, timorosa di rischi legali, finanziari e politici.
C’è un punto su cui l’Ue è risoluta: aiutare l’Ucraina ad avere sostenibilità finanziaria. Il 18 dicembre i leader in Consiglio europeo tratteranno il dossier; lo monitorano Zelensky, Putin, Trump. L’Ucraina guarda al 2026 con senso di vertigine: oltre allo scandalo corruzione, c’è il conto alla rovescia delle finanze in difficoltà. Trump ha sforbiciato gli aiuti finanziari Usa e ha chiesto agli europei di pagare le sue armi per Kiev.
A novembre Ursula von der Leyen – sollecitata dai governi a formulare ipotesi e indaffarata nelle trattative col premier belga in primis – ha sciorinato opzioni per sostenere Kiev, nessuna a costo zero per i contribuenti europei. Una è il «supporto che non va ripagato» (contributi bilaterali a fondo perduto degli Stati all’Ucraina). Poi c’è il prestito raccolto dall’Ue sul mercato: sarebbero comunque i Paesi europei ad assumere su di sé il carico almeno degli interessi.
Tra le opzioni, la mossa che smuove gli asset porta l’etichetta di reparation loan initiative. Il prestito riparatorio è erede della lettera in cui Merz diceva che «pur senza intervenire sui diritti di proprietà, potremmo rendere reperibile per Kiev un prestito a interessi zero da circa 140 miliardi che verrebbe restituito solo quando la Russia compensasse l’Ucraina dei danni di guerra; prima di allora, gli asset russi resteranno congelati». Formalmente è l’Ue a concedere il prestito, ma lo finanzia con gli asset. Poiché sono gli Stati europei a fornire garanzie finanziarie, in quanto passività potenziali finirebbero nei nostri bilanci.
Da mesi, per persuadere l’Ue, Zelensky si impegna in acquisti di armi dai governi europei; ma ha anche già chiarito che un terzo della torta degli asset andrebbe agli Usa. Con il piano in 28 punti, Trump e Putin hanno tentato di mettere nel sacco gli europei, prevedendo che a gestire gli asset fossero Russia e Usa, con gli Usa beneficiari «della metà dei profitti» e gli europei a prendersi i costi («altri 100 miliardi» da versare). La concitazione dei negoziati ha agitato gli europei: per non farsi vedere impantanata, von der Leyen a fine novembre ha annunciato l’arrivo di una proposta legislativa. Non ha specificato quale, ma il tema degli asset si è riacceso e il nazionalista belga Bart De Wever è tornato a spegnere entusiasmi. Dietro le rimostranze sue, di Orbán e Fico, pure altri governi frenano. Così prende forma l’ipotesi che l’Ue raccolga soldi sui mercati per un prestito a fondo perduto che copra le esigenze del 2026. C’è chi lo chiama prestito ponte, chi fondo di emergenza: è paura di rompere le uova che vanno a finire in frittata?
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