Renato Ellero, una vita in trincea con tanta grinta

(Articolo su Renato Ellero da Vicenza PiùViva n. 298, sul web per gli abbonati).
Non lo ferma neanche la sedia a rotelle che, anzi, l’ha spinto contro medici e giudici.
La grinta. Seppure oggi amplificata dalla rabbia e fomentata dalla frustrazione per quello che, dieci anni fa, all’improvviso, gli ha rovinato la vita senza ritorno, sembra essere stata sempre un’innata grinta – insieme alla passione per la giustizia – la linfa vitale dell’avvocato Renato Ellero.
A ripercorrerne le gesta non sembra un caso nemmeno che sia nato il 14 luglio (1944), il giorno della presa della Bastiglia, come sottolinea lui stesso… Un’intera esistenza spesa per la giustizia, contro le ingiustizie, tra azione, convinzione e rivoluzione. Per gli altri, fino al 2015.
Una lunga e fulgida carriera, di legge, accademica e politica, lo ha portato negli anni non solo a essere un personaggio noto a Vicenza, ma anche a popolare le cronache con le battaglie dei suoi (prestigiosi) clienti. Ora, dopo che dieci anni fa, in seguito a un malore, entrò in ospedale sulle proprie gambe e ne uscì su una sedia a rotelle con un’emiparesi,
conseguenza di un ictus che «poteva e doveva essere evitato», dopo aver denunciato il San Bortolo e anche la magistratura berica, è la sua personale battaglia contro quelli di cui parla come «i crimini dei camici bianchi» che sta tenacemente combattendo. Con la sua caratteristica grinta, appunto.

Non voglio dire che sia la sua unica ragione di vita, perché appena entro a casa sua, accolta da Ada, la sua signora, capisco subito che il suo punto fermo, fermissimo e confortante, è la famiglia. Una grande famiglia, che parte dall’insostituibile moglie, tanto (troppo?) pacata e solida come solo i friulani sanno essere, e passa attraverso due figli di cui va molto orgoglioso, le nuore e i nipoti, fino a tutti gli animali di affezione che ne hanno fatto parte prima di Milù, la micia snob ma fedele che non si concede a nessuno, se non al suo Renato.
Di origini veneziane, figlio di un noto industriale, Ellero, un passato da senatore dal ’94 al ’96, vive qui dal 1958 e della città, che oggi può godere solo dal terrazzo panoramico, ha dominato la scena per lunghissimi, vivacissimi anni, dedicandosi alla scienza giuridica, all’insegnamento e alla passione politica. Con tanto, tanto pepe in corpo. In città, ma anche in Parlamento e a Roma in genere, conosce davvero tutti. Con il suo inequivocabile e tutto fuorché formale lessico inquadra tutti i personaggi che hanno contato e quelli che contano e non lesina particolari “fuori curriculum”.
Perché per lui è così: le cose (e le persone) sono semplici, hanno un nome preciso, almeno quanto l’idea che si fa di loro. Il racconto di una vita fuori dall’ordinario lo porta a citare, nel bene e nel male ma sempre con cognizione di causa, nomi grossi del panorama vicentino, regionale e nazionale e mi convinco che questo suo essere senza mezze misure sia il carburante per un viaggio che, nonostante la tragedia che lo ha colpito, è tutt’altro che finito. Anche i ricordi non sono intrisi di nostalgia, ma conditi al peperoncino e vividi, appassionati.
Renato Ellero è una mente fervida e una lingua affilata, che però non colpisce a caso. E non risparmia nemmeno se stesso. Non si nasconde dietro i titoli e si racconta senza nascondere le varie evoluzioni in politica, dalla DC al NO Cav («Berlusconi nel ’94 non si dimise, fu buttato fuori», tiene a specificare), passando attraverso la Lega di Bossi, prima, e la Lega Italiana Federalista (LIF), fondata da lui stesso con altri dissidenti, poi. Lo fa nel suo stile, colorito ma anche colorato. Come quando dice di essere entrato nella Democrazia Cristiana con il cugino di Rumor, a 21 anni, pensando “Andiamo a fare un po’ di casino”. E d’altro canto non ha problemi a dichiarare «Ero rumoriano, ma Rumor non lo amavo affatto». Per non parlare dei tanti aneddoti imbarazzanti, non certo per lui, che eviterò di raccontare.

C’è una rinuncia che l’ha segnata, a parte quella devastante a una vita normale cui è costretto oggi?
Desideravo moltissimo andare alla Corte Costituzionale e tra il 1995 e il 1996 me lo proposero, con il benestare sia di Berlusconi che di D’Alema, ma dissi no, perché avevo appena fondato la Lif. Non me ne sono mai pentito però…
Però sono stati diversi i suoi no alla politica.
Sì, in varie fasi e per disparate ragioni. Quella determinante però, a un certo punto della mia vita, è stata la famiglia.
Al di là delle singole situazioni, della mia scarsa stima nei confronti degli elettori italiani, dei meccanismi nascosti e del ricatto dei sondaggi, la mia ragione prima di vita è sempre e comunque la famiglia. Mi sarebbe mancata troppo facendo quel tipo di esistenza. Avevo bisogno delle emozioni, più che della gloria. Amo la giustizia, ma adoro la mia famiglia.
Una vita e una carriera intensi lo portano a sgranare come un rosario nomi che si direbbero illustri, a cui però l’avvocato non sempre dà questa valutazione: da Berlusconi a D’Alema, da Nordio a Meloni, da Maccanico a Dini, da Bossi a Maroni passando per mezza Italia, politici e personalità di Vicenza in primis. Ma poi, con naturalezza (e una dolcezza insospettabile), senza piagnistei e con fierezza, è ancora la sfera privata a tirargli fuori i sentimenti.
L’armatura lucente si incrina e lui pronuncia queste esatte parole: «Senza mia moglie, mi ucciderei». Ma Ada c’è, va e viene discreta, partecipa senza intromettersi, placa e conforta, non lo contraddice, non minimizza, ma gli fa sentire che c’è altro e che è tantissimo. È il momento per me di accantonare politica, giochi di potere, denunce, scandali – di cui, lo dico fuori dai denti, “alla Ellero”, molto poco mi importa – e di conoscere l’uomo. E la donna che gli sta accanto da mezzo secolo.
Ada ora si ferma nella stanza con noi e partono i ricordi, spuntano le fotografie, si incrociano i racconti di vita vera, l’unica che in fin dei conti, può vincere su tutto, sedia a rotelle compresa.

Com’è nata la joint venture Ada e Renato?
Ci siamo conosciuti nel 1971, a una festa di amici. Ada è originaria di Forni Avoltri e abbiamo scelto di sposarci lì, nel 1974, tra le montagne della Carnia, lontano dalla scena pubblica.
Ad aprile dovevamo portare le pubblicazioni ma, causa nevicata tardiva, dovemmo affidarci ai carabinieri, come in un film. L’anno scorso abbiamo festeggiato il cinquantesimo, con semplicità, a pranzo fuori con la famiglia. Mia moglie è essenziale per me, senza di lei non sarei niente. Mi è sempre stata accanto, sostenendomi e contenendomi. Io sono il
battagliero e lei è la diplomatica.
In effetti, durante la nostra mattinata insieme, più volte, davanti a frasi non esattamente neutrali come «Io ormai vivo per sputtanare i giudici» e «Io sono uno scienziato del diritto, loro no», la mano di Ada si appoggia delicatamente sulla spalla di Renato, mentre gli dice «Va bene, dai. Andiamo avanti». I bomba day a cui, volente o, meglio, nolente, è abituata Vicenza, tornati alla ribalta con la costruzione della Tav – su cui sono certa che l’avvocato avrebbe da dire la sua – non sono nulla: per Ada il disinnesco deve essere quotidiano, continuo. Ma lo fa, oltre che con grande maestria, con evidente amore. Il solo che può essere più forte della rabbia, dell’odio.

E gli altri pezzi di cuore?
Abbiamo due fantastici figli, Luca e Marco. Entrambi avvocati, però oggi a praticare è solo Marco, Luca invece è nel ramo bancario. Tanta stima e affetto anche per le mie nuore, con cui ho un bel rapporto. Marco e Chiara hanno due figli, Andrea e Ginevra, oggi adolescenti, che, oltre al loro affetto, mi regalano anche soddisfazioni in campo sportivo, rispettivamente nella pallanuoto e nel nuoto sincronizzato. Ultimi ma non ultimi, i nostri adorati quattrozampe. Abbiamo tutti o cani o gatti, o entrambi. Maya, la cagnetta di Marco, trovata quando aveva 2 mesi chiusa in uno scatolone, ha un debole per il “nonno”: non lascia che nessuno mi avvicini. Ada e io oggi abbiamo Milù, scovata anni fa che miagolava in un garage. Ha riempito il vuoto lasciato dalla cagnetta Black, sempre affezionatissima a me, e le due giapponesine di razza Shiba, Tora e Byte, che avevamo preso dopo di lei. Come tutti i gatti, Milù è di rare smancerie, che però a me concede, ma è fedele almeno quanto si dice dei cani: quando fui ricoverato 10 mesi in clinica dopo il fattaccio, al mio ritorno prese a seguirmi ovunque, sia in casa che in passeggiata. Una guardia del corpo.

Giuri di dire la verità, tutta la verità (che glielo dico a fare?), nient’altro che la verità: qual è il suo rapporto con Vicenza?
Quello di un veneziano trapiantato. Non sono abituato a parlare alle spalle, ai giri di parole, alle maschere. Già quando arrivai, adolescente, non fui entusiasta. Probabilmente già allora ero molto selettivo e ancora oggi, pur conoscendo pregi, difetti (e qualche segreto) di moltissimi protagonisti della Vicenza che conta, ho legato davvero con pochi prescelti. D’altro canto, i vicentini sono sospettosi di natura. Sono avversi al “foresto”. E io mica sono un “ganghero”… In fondo, però, oggi il mio con Vicenza è un rapporto da disabile, come lo sarebbe in qualsiasi altro posto.
A stemperare l’amarezza e addolcire le acque, arriva anche questa volta Ada, che dice invece: «La trovo bellissima. È una città che ti fa vivere camminando, ammirandola. Umana, insomma”. Dici poco.
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