Cultura

Remote Echoes :: Le Recensioni di OndaRock

La seconda vita dei Duster, sbocciata nel 2019 dopo quasi vent’anni di stop, prosegue arricchendo una produzione che sta divenendo tanto importante quanto quella realizzata nel quadriennio d’oro, quello a cavallo fra il 1997 e il 2000. Risale a quel periodo “Stratosphere“, pietra miliare che proprio di recente ha compiuto 25 anni, oggetto per questo motivo di una preziosa reissue. In contemporanea, per rendere ancor più ricche le celebrazioni, il duo californiano spesso associato alla scena slowcore (pur integrando determinanti elementi space e post-rock) ha immesso a sorpresa sul mercato “Remote Echoes”, una raccolta di rarità comprendente demo, B-side e qualche inedito finora rimasto in fondo ai cassetti.

Si tratta di bozzetti catturati durante session di registrazione casalinghe negli ultimi cinque anni di attività del duo, realizzati con un quattro piste in maniera artigianale. Quattordici istantanee che possono interrompersi in qualsiasi momento, oppure partire all’improvviso, suonate con attrezzatura ai minimi sindacali da Clay Parton e Canaan Dove Amber: chitarre fuzzy, synth minimali, una batteria leggera, qualche percussione.
Si passa da intermezzi lunari ai quali è stato assegnato un titolo provvisorio (“Untitled 59”) a strutture che assumono una forma più delineata, quasi un formato canzone: è il caso dello strumentale “Before The Veil”, scelto per aprire i concerti dello scorso autunno. A dominare è comunque un piacevole senso di indeterminatezza: tutto resta volutamente incompiuto, traballante, provvisorio, come se fossimo in cameretta con loro, testimoni del prodigio della creazione.

Per gran parte delle tracce il mix di influenze questa volta si assesta fra Sparklehorse (l’irresistibile “The Weed Supreme”, “I Know I Won’t”) e Pavement (a cos’altro potrebbero assomigliare gli accordi di “The Mood”?), se non addirittura a un’ipotesi di incrocio fra i due (“Moon In Aries”). Briciole di Yo La Tengo si percepiscono nei cinquantanove secondi di “Strange”, sperimentazioni kosmische emergono da “Testphase”, mentre canzoncine come “Country Heather” potrebbero rappresentare il sogno di qualsiasi musicista indie con la fissa per l’Americana.
Le voci che restano dietro in “Untitled 84”, brevi instrumental che riprendono l’estetica di “Gold Dust”, l’improvvisazione di “Darby” costellata da feedback incontrollati: chissà tutto questo – se ulteriormente sviluppato – dove avrebbe potuto condurre. Ma c’è grande fascino in queste improvvisazioni, anche se mantenute allo stato embrionale.

24/02/2024




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