Reinhold Messner: «Vivo senza rimpianti. Morire non è difficile, lo è sopravvivere. Gli alpinisti di oggi? Devono saper essere anche buoni scrittori»
Una leggenda perennemente in cammino, tra valori, ideali, ricordi, parole, esperienze, desiderio di raccontare, votata da sempre a fare divulgazione e formazione, parlando della montagna come fattore culturale e filosofia di vita. Reinhold Messner, 80 anni, il primo uomo a conquistare tutte le 14 vette oltre gli 8mila metri, tra il 1970, dal Nanga Parbat (là dove morì il fratello Gunther) e il 1986 (al Lhotse, in Nepal), con nel mezzo, tra gli altri, l’Everest, il K2, il Broad Peak, l’Annapurna, il Makalu, ogni volta che lo si incontri sa coinvolgerti in maniera diversa e arricchente. In lui convivono infatti un pozzo di saperi, gli stessi che lo hanno portato oltremodo a diventare uno storyteller a 360° grazie a film, decine di libri pubblicati, incontri, progetti, grandi imprese, e i complessi museali da lui ideali.
Reinhold Messner al Trento Film Festival 2025EMILIANO_ZANINI
Al 73esimo Trento Film Festival (di cui è socio onorario), in programma fino al 4 maggio 2025, ha presentato il suo nuovo documentario da regista, K2 – La grande controversia, riguardo alla prima ascesa italiana verso il K2 del 1954, da parte di una selezione di grandi alpinisti, guidati da Ardito Desio, alla conquista del K2, e nella quale c’erano nomi come Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e un giovanissimo Walter Bonatti. Proprio a quest’ultimo, e ad una controversia infamante durata più di 50 anni nei suoi confronti, è dedicato il racconto, in cui lo stesso Messner fa da voce e volto narrante (in tedesco), ricostruendo, anche tra materiali d’archivio inediti, come andò. Un lavoro di ricerca, personale, sentito, in cui emerge concretamente la verità.
La trovo come sempre in splendida forma. Qual è il segreto?
«Sono ancora attivo, questa è la mia fortuna (sorride, ndr)».
Partiamo dal suo nuovo lavoro, sembra le stia molto a cuore, o sbaglio?
«In questo ruolo da storyteller, non come storico, io mi sono trovato in quelle zone, là dove la mia di storia è successa. Qui tento di raccontare finemente il dietro le quinte di ciò che avvenne sul K2 nel 1954, legandomi al fatto che solo dieci anni dopo (nel 1964, ndr) iniziò questa lite, ma che all’inizio non ci fu. Una bellissima salita, una delle più importanti di tutti i tempi, nella zona della morte, e dalla quale è nata una disputa durata 50 anni e che neanche oggi ha trovato una pacificazione. Avevo dunque una grande responsabilità, ho scelto di narrare nella mia lingua madre per raccontarla».
Si vede ancora il confine tra vita e morte. Lei com’è l’ha vissuto?
«Lassù, sul K2, quella lunga notte, per Amir Mahdi e Bonatti, sembrava non finisse più. Personalmente sono del parere che l’alpinismo tradizionale è basato sul fatto che noi andiamo liberamente, senza nessun stimolo od obbligo, in posti dove la morte è una possibilità. L’arte sta nel non morire, la natura è molto più grande di noi stessi, siamo sempre limitati in molte cose, e se non accettiamo il fatto di esserlo, non dovremmo andare in montagna».
«Siamo giudici di noi stessi”, come diceva proprio Bonatti?
«Ideatori e artefici di ciò che facciamo, esattamente, perché viene tutto dalla nostra testa, siamo arbitri. Io, le posso contare su una mano, mi sono trovato in situazioni che potevano finire con la morte, ma spesso non c’era un momento drammatico, sul Nanga Parbat, o anche tentando di andare al Polo Nord».
E come è sopravvissuto?
«Tramite l’istinto, è più forte della nostra volontà, ci tiene in vita finché c’è anche solo una possibilità. L’ho vissuto una volta: se non abbiamo nulla a cui aggrapparci, zero chances, ci lasciamo cadere nella morte, senza rimpianti. Sa, non è difficile morire, lo è molto di più sopravvivere».
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