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pur di fare profitto, si scivola nell’illegalità

I ricchi vivono bene ovunque: in campagna, in città, in province sonnacchiose o metropoli scintillanti, su isole sperdute o in gated communities a due passi dagli slum più pericolosi, a Lagos, a Kyoto o in un ranch in Texas. I loro mezzi gli consentono di costruirsi bellezza e sicurezza in qualsiasi luogo. Non c’è quindi alcun bisogno di costruire le città a misura dei loro gusti, perché sono così bravi a realizzare i loro paradisi separati dalla volgare marmaglia che difficilmente dei piani mediocri concepiti da gente meno agiata di loro li convinceranno a spostarsi.

È per gli altri che vanno pensate le città: per i milioni di persone affaticate dal disagio abitativo, per il ceto medio. Sono loro che hanno bisogno di spazi pubblici, servizi pubblici, trasporti pubblici, case a prezzi ragionevoli, ed è su questo metro che si misura la qualità della vita urbana, della convivenza civile, della bellezza stessa delle città. La pianificazione urbana può incidere moltissimo nel miglioramento delle condizioni sociali, può attivamente produrre uguaglianza. O esattamente il suo contrario, come si è fatto a Milano.

Le nuove inchieste che hanno coinvolto il sindaco Sala, l’assessore Tancredi, l’immobiliarista Catella, gli architetti Boeri e Scandurra tra gli altri, sono il frutto di un grande lavoro che getta una luce preziosissima sulle dinamiche che hanno costruito la nuova Milano. Oltre ai reati ipotizzati, alla corruzione o induzione o falso, ai conflitti di interesse, emergono dalle carte le prove di una pianificazione urbana apertamente ostile ai cittadini, che non solo conferma, ma fornisce una nuova consistenza alle ricostruzioni del “modello” elaborate da critici e attivisti. E questo è un dato da non sottovalutare, perché per anni chi ha analizzato, criticato, proposto alternative allo sviluppo urbano neoliberale è stato censurato, messo ai margini, trattato da pazzo (un classico peraltro, lo sapeva anche Shakespeare che metteva in bocca ai fool le parole più sagge).

È proprio per questo motivo che politici e media si sono immediatamente attivati per occultare la dimensione politica strutturale del problema evidenziato dalle inchieste, e con ogni mezzo tentano di ricondurre il dibattito alla sola questione penale.

Questo gli permette di difendere gli attori in gioco e il sistema stesso facendo mostra di garantismo, affermando come la presidente del Consiglio che non esiste un automatismo tra indagini e dimissioni. E di svilire le indagini come fa Di Pietro. Di sostenere, come ha affermato Claudio Martelli, che “Non si vedono i piccioli” – che però è un problema strutturale della giustizia italiana: sono anni che gli inquirenti lamentano la scarsità di mezzi messi a loro disposizione per indagare gli sfuggenti reati finanziari, e sono anni che le riforme necessarie a difendere l’interesse pubblico dalle nuove immense possibilità di delinquere offerte dalla finanza vengono respinte, o mitigate fino all’inconsistenza. Ma soprattutto separare il piano giudiziario dal politico gli consente di distinguere pelosamente, come fa il Corriere, tra la sacrosanta difesa dell’onestà e una – secondo loro improvvida – messa in questione del modello di sviluppo urbanistico-finanziario.

E invece la questione sta proprio in questa idea mortifera di crescita illimitata, nel dettato neoliberale della competizione tra le città per l’attrazione degli investimenti: perché il suo principio fondante è la rimozione delle norme che ostacolano il profitto, e quindi la deregolamentazione in campo urbanistico, ambientale, sociale. Quando le lobby immobiliari esercitano pressione per “semplificare” le leggi non vogliono affatto renderle più chiare, ma al contrario creano una zona grigia del diritto per rendere legale fare quello che fanno, e cioè costruire i grattacieli con la Scia in mezzo ai cortili, occupare suolo e distruggere vegetazione, pagare sempre meno tasse e oneri, opprimere le città con cicli continui quanto superflui di demolizione e ricostruzione, ad alta emissione di carbonio e produzione di macerie, privatizzare spazi e servizi pubblici, e soprattutto innalzare costantemente i valori della rendita immobiliare, a scapito degli abitanti.

A forza di erodere le leggi, di plasmarle e riplasmarle a loro favore, anche le norme residue che resistono a tutela dell’interesse pubblico sembrano ai loro occhi intollerabili: lo scivolamento nell’illegalità è un passaggio insensibile, naturale conseguenza dell’ideologia che impregna questo sviluppo. È lo stesso principio che regola il rapporto tra elusione fiscale ed evasione: le grandi società finanziarie, le multinazionali pagano infinitamente meno tasse di chiunque altro, eppure non si accontentano della fiscalità regressiva: evadono moltissimo pure quei quattro spiccioli che dovrebbero dare agli Stati che si sono svenati pur di attrarli.

Il piano politico e quello del diritto sono in questo momento interdipendenti: per ottenere più redistribuzione è necessario combattere su entrambi i fronti, impedire la resa totale alla deregolamentazione e alla detassazione (anche codificando nuove norme a difesa della società e dei territori), e inibire l’appropriazione illegale di città e risorse pubbliche è sempre una questione politica.


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