Polly Paulusma – Wildfires | Indie For Bunnies
Parlare di “Wildfires”, il nuovo disco di Polly Paulusma, può apparire esercizio semplice o al contrario alquanto complicato, questo perché l’artista inglese ci ha abituati a determinati standard qualitativi e quell’aura di perfezione formale che ammanta ogni suo titolo in catalogo inevitabilmente si ritrova anche qui.
Si potrebbe quindi correre il rischio di dare quasi per scontato che la Nostra ci abbia confezionato l’ennesimo album da ideale “Premio della critica”.

Ma in realtà, sin da quando Polly collezionava articoli da copertina (finendo in prima pagina persino nelle riviste specializzate italiane) ai tempi del felicissimo debutto discografico avvenuto nel 2004 con “Scissors in My Pocket”, nel suo caso non si trattò di mero hype, in quanto il tempo avrebbe confermato e testimoniato l’essenza di un talento puro, in grado di intessere la propria proposta di autenticità e genuinità.
D’altronde nei suoi lavori non è mai mancata la sostanza, profusa anzi ad ampie dosi, e in tempi odierni di corsa sfrenata al singolo e dell’ apparenza ad ogni costo per restare aggrappati alla contemporaneità, lei ha risposto presente realizzando album solo quando ne sentiva il reale bisogno. Nel mentre non ha mai smesso di dedicarsi alla musica, pubblicando con la sua etichetta “Wild Sound” diversi artisti meritevoli.
Se gli ultimi dischi di inediti l’avevano comunque attestata sugli elevati livelli abituali, denotando oltretutto una inedita prolificità compositiva, con “Wildfires” (che non risulta scorretto definire un concept) la Paulusma si prefigurava sin dal principio di creare qualcosa che avesse un peso specifico notevole.
L’urgenza è stata assecondata dalla scelta di una location ottimale per registrare il tutto, presso uno studio ricavato in una cappella in Galles, così come l’essersi rivolta a musicisti affini, oltre che fidati, quali Jon Thorne al contrabbasso, Neil Cowley al pianoforte e il produttore Ethan Johns alla batteria, ha fatto sì che l’intesa artistica fosse totale.
Il risultato è un disco d’altri tempi, soprattutto per concezione, trattandosi di un compendio formato da ben 38 tracce, comprese di strumentali e interludi, tutti funzionali all’intero progetto, uscito in formato doppio cd e triplo vinile con tanto di libro a ribadire la consistenza stessa del lavoro, che di certo richiede un livello di attenzione e di ascolto piuttosto alto, specie se paragonato ai modi con i quali si abbevera di musica il fruitore medio al giorno d’oggi.
Tuttavia faremmo un grave errore di valutazione se ci approcciassimo a queste nuove canzoni convinti di trovarci davanti a un “mattone”, poiché la cifra stilistica di Polly rimane al contrario essenziale, verrebbe da dire semplice nel suo affidarsi magistralmente alla sola chitarra, al pianoforte e a un contrabbasso espressivo come non mai.
In questa veste in apparenza scarna vi è in realtà un mondo sonoro intriso di suggestioni, di atmosfere cangianti, di colori e umori, sempre coordinate da magnifiche interpretazioni vocali; il cantato rimane infatti cruciale, direi il vero punto forte dell’opera: ciò che la cantautrice inglese riesce a trasmettere è emozione tangibile, vuoi per le liriche al solito coinvolgenti, vuoi per i temi universali trattati, su tutti quelli dell’amore, visto, vissuto, sviscerato in ogni sua prospettiva, dai primi vagiti adolescenziali ai tumulti adulti fino alle mature consapevolezze e al tendere verso l’aldilà.
Sembrano lontani i tempi in cui la Nostra da vera self-made woman faceva tutto da sé, esplorando le possibilità della Rete (e della piattaforma MySpace nello specifico), eppure non pare essersi smarrita quella vena esploratrice, la voglia di osare rimanendo libera nell’indole di musicista e narratrice.
Così in “Wildfires” assistiamo a un viaggio sonoro intimo e profondo ma in grado comunque di abbracciare il mondo, con la natura che diventa anch’essa protagonista, con i suoi suoni catturati dalle grotte o dai fiumi che riecheggiano nelle intro ai pezzi o accompagnano quei recitati a fungere da specchio per le canzoni vere e proprie.
Il bello è che nulla di quanto inserito qui dentro si può definire riempitivo, e allo stesso tempo è quasi impossibile rintracciare quelle tracce più significative, perchè tutto dipende anche dalla nostra predisposizione del momento.
Pertanto il mio consiglio non sarà certo quello di skippare qualcosa per passare subito ad esempio al quarto pezzo in scaletta (una “Mary Louise” dalle liriche struggenti), o di soffermarsi nello specifico in episodi ariosi e sognanti quali “O! My America” e “Wild Swimming”, nè di perdersi nelle delicatezze malinconiche di “Long Goodbye” o “You Are Everything”, bensì quello di ritagliarsi un paio d’ore tutte per voi dove farsi cullare e avvolgere, al riparo dalla frenesia dei ritmi quotidiani.
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