Peter Townsend e la principessa Margaret: quell’amore scandaloso raccontato dalla figlia di lui
Dalle opere, suo padre emerge come una persona sensibile, capace di esprimere emozioni forti con eleganza e dignità. Crede che la sua relazione con la principessa Margaret sia stata un peso troppo grande?
«Ha avuto una vita difficile quando il loro legame è diventato pubblico. Credo che la fine della relazione sia stata una decisione che hanno preso insieme, e forse è stata la scelta migliore per lui. Mio padre era affezionato alla famiglia reale, che l’ha sempre rispettato. Ha apprezzato il loro sostegno, ma si è sentito abbandonato dall’establishment e solo nell’affrontare la stampa. Le conseguenze sono state probabilmente più complicate per lei. Mio padre ha dovuto lasciare l’Inghilterra, ma ha potuto rifarsi una vita. Ha incontrato mia madre e sono andati subito d’accordo. Amavano i cavalli, la natura, il giardinaggio. Lei era affettuosa e lo faceva sorridere. Hanno avuto un rapporto meraviglioso e il lungo matrimonio ne è la prova».
Forse con Margaret erano troppo diversi e lui non sarebbe stato felice se fossero rimasti insieme, mentre sua madre è stata il vero amore della sua vita. È d’accordo?
«Assolutamente. Ciò che è successo con la principessa Margaret lo ha colto di sorpresa, si sono innamorati perdutamente. Ma credo che non fossero fatti l’uno per l’altra, e che lui si sia davvero innamorato di mia madre. Il loro primo incontro è stato epico. Lei stava facendo un percorso di salto a ostacoli a cavallo, lui era tra il pubblico e lei gli è caduta davanti, rompendosi una clavicola. Lui l’ha soccorsa ed è scoccata la scintilla».
Che padre era e qual è stata la cosa più importante che le ha insegnato?
«Mia madre era molto più giovane, ma seppe creare un ambiente sicuro dove lui potesse lavorare, mentre scriveva. A volte era difficile, ma lei capiva e si prendeva cura della casa. Ricordo quando gli facevo visita, mentre era assorto nel lavoro. Forse avrebbe desiderato essere più presente, ma ho bellissimi ricordi. Quando mi chiedevo cosa fare della mia vita da adolescente, mi diceva di essere curiosa, viaggiare e restare fedele a me stessa. Era un’anima pura».
Lei ha ripreso il lavoro di suo padre dove lui l’aveva lasciato, in merito a Il postino di Nagasaki. L’ha considerata una missione di vita?
«Ho ricevuto una email dal postino Sumiteru Taniguchi ventiquattro anni dopo la morte di mio padre. Mi chiedeva se il libro potesse essere ripubblicato in giapponese. Ho iniziato a lavorare con l’editore Yoshihiro Saito a Tokyo, che mi ha presentato Mika Kawase, la regista, e abbiamo deciso di girare un documentario basato sul libro. È diventata una necessità e mi ha fatto capire perché mio padre lo avesse scritto, scoprendo un suo lato che non conoscevo. Taniguchi doveva essere il personaggio principale, ma è morto otto anni fa. Aveva diversi tumori e soffriva a causa delle radiazioni a cui era stato esposto, ma era coraggioso e non si è mai arreso. L’ho incontrato nel 1985 quando venne a Parigi, sognavo di andare a Nagasaki per fare il documentario con lui, ma non ho fatto in tempo. Con Kawase abbiamo deciso di riscrivere la sceneggiatura dal mio punto di vista. Mio padre e Taniguchi si capivano in quanto entrambi sopravvissuti, anche se in circostanze diverse. L’aereo di mio padre fu abbattuto durante la guerra. Taniguchi ha passato l’inferno, ma non si è mai ritenuto un martire. Ecco perché mio padre lo ammirava tanto. Nello studio di mio padre ho trovato alcune lettere, i suoi appunti e dodici nastri con le registrazioni delle interviste fatte a Taniguchi. Questo documentario è un omaggio alla vita, ha qualcosa di poetico e personale. I giapponesi hanno un senso estetico speciale. Riescono a vedere la bellezza anche nella crudeltà di una tragedia».
Oggi tanti hanno paura di una nuova guerra atomica. Che cosa ne pensa?
«C’è un cambiamento in atto ed è tempo che la gente cominci a farsi sentire. Spero che il documentario ispiri le nuove generazioni e sensibilizzi sull’uso delle armi nucleari. Gli effetti sono irreversibili e le conseguenze enormi, a livello fisico e psicologico. Credo che si parlerà del nostro lavoro a lungo».
Il libro Il postino di Nagasaki è disponibile in inglese e giapponese. Verrà pubblicato in francese a maggio dalla casa editrice Les Éditions Les Belles Lettres. Il documentario uscirà in Francia il 27 maggio per gli 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sarà poi presentato in festival cinematografici internazionali e trasmesso in televisione, anche in Italia.
Suo padre sarà orgoglioso di lei.
«Mi emoziona dirlo, ma credo sia così. Un giorno mi ha detto che avrei letto i suoi libri solo dopo la sua scomparsa, aveva ragione. Mi diceva sempre che “non bisogna mai arrendersi”. Ora sa che non l’ho mai fatto».
Per abbonarvi a Vanity Fair, cliccare qui.
Source link