Personaggio e maschera: la dis-identità
di Giuseppe Fedeli *
Costa fatica a molti staccarsi dal proprio personaggio, togliersi quella maschera senza la quale, per paradossale che possa sembrare, si è privati di una carta d’identità. Un conto infatti è la maschera che indossiamo quando andiamo al lavoro, o quando svolgiamo un’attività che coinvolge la dimensione pubblica. In questo caso, l’essere compresi nel ruolo è una forma di decoro e di rispetto verso sé e gli altri, secondo i valori generalmente condivisi dai consociati in una determinata temperie storico-culturale. Altro conto è invece la maschera che si indossa perché non si accetta il proprio aspetto, ma soprattutto la propria facies interiore. E’ la maschera, il cui etimo ha a che fare con la parola “persona”, che deriva dal verbo “personare”, composto da “per-” (attraverso) e “sonare” (risuonare: originariamente, il termine si riferiva agli attori del teatro classico che “parlavano attraverso” le maschere che indossavano): che troppi indossano per trincerarsi dietro i propri vuoti, le proprie frustrazioni, le proprie inattitudini, ma anche per essere accettati o per adattarsi a diverse situazioni sociali.
Invece di lavorare a costruire il proprio io e ad essere se stessi (o a diventarlo, come predicava Nietzsche), quella testè descritta è spesso una forma di auto protezione, consapevole o inconsapevole che sia. Secondi gli studi di psicopatologia, la maschera assume una valenza significativa all’interno di meccanismi di difesa e di distanza a seguito di un malessere che non viene elaborato, piuttosto negato. Essa diviene parte integrante della personalità di un individuo, entrando a far parte del proprio modus operandi, il tutto per allontanare un dolore ingestibile che però, uscito dalla porta, rientra dalla finestra. Chi indossa la maschera fa a gara per somigliare a chi ha eletto a totem, a guru della propria vita: influencer, come si dice adesso, che tenta l’altrui condotta nel senso della emulazione. Qui si gioca una partita cruciale, quella appunto della dis-identità (ci sono anche le maschere “reali”, leggi facce gonfie di botox e labbra a canotto). Ciascun uomo è, per sua natura, diverso dai propri simili, è, cioè, unico. Se rimane abbarbicato al personaggio, egli non riesce più nemmeno a fare una distinzione tra vita privata e vita pubblica: al punto che, una volta rientrato nella dimensione domestica, gli resta ancora appiccicato il sudore di quella maschera, che indossa non appena esce di casa. Maschera che, si intenda bene, può assumere varie connotazioni, a seconda se si è in famiglia o nel luogo di lavoro, ovvero con altre persone etc etc. Se invece l’uomo cercasse la propria dimensione e si avvicinasse via via alla consapevolezza della propria unicità, accetterebbe allora anche i propri difetti (o quelli che ritiene tali): in una prospettiva che tende a valorizzare non tanto i meriti e i talenti, quanto l’essere portatore di quella unicità, che è il suo marchio di stampa.
* giudice
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