Perché Trump vuole imporre dazi del 100% sui film stranieri (e quali conseguenze ci saranno)
Nelle ultime ore Donald Trump si è dato da fare. Oltre ad aver annunciato la riapertura della prigione di Alcatraz, ha condiviso sul suo profilo di Truth (social network sviluppato dalla sua azienda Trump Media & Technology Group) la notizia dell’incremento del cento per cento di dazi sui film stranieri. «L’industria cinematografica americana sta morendo molto rapidamente. Altri Paesi stanno offrendo ogni sorta di incentivo per attirare i nostri registi e i nostri studios», si legge dal post del Presidente degli Stati Uniti, che trova nello sforzo di spostare e concentrare le produzioni dei cineasti in altri lidi una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale. «Si tratta, oltre a tutto il resto, di messaggistica e propaganda!», prosegue il post. «Pertanto, autorizzo il Dipartimento del Commercio e il Rappresentante del Commercio degli Stati Uniti ad avviare immediatamente il processo di istituzione di una tariffa del 100% su tutti i film che arrivano nel nostro Paese e che sono prodotti in terre straniere».
Quanto produce l’America all’estero?
È indubbio che, negli ultimi anni, il numero di produzioni che hanno cercato incentivi e finanziamenti all’estero hanno trovato degli ottimi riscontri sul piano economico, spostando la produzione fuori dagli Stati Uniti, per la gioia di altri Paesi che hanno accolto alcuni dei più grandi titoli del panorama americano. Basti pensare a un colosso come la Marvel: l’ultimo Thunderbolt* è stato girato solamente tra New York e lo Utah, ma più volte è capitato che i supereroi di Kevin Feige viaggiassero per il vecchio continente, dalla Germania che è stata luogo di riprese per il team-up degli The Avengers fino alla più recente serie The Falcon and the Winter Soldier uscita nel 2021.
La stessa Italia ha fatto da set a Tom Cruise e alle sue sfide sregolate per il Mission: Impossible – Dead Reckoning del 2023, dando anche una mano al Belpaese in un periodo di incertezza e ristrettezze dopo la pandemia da Covid-19. Per non parlare dell’Australia e dei suoi Disney Studios che hanno accolto alcuni dei blockbuster ritenuti di punta nel 2024 (The Fall Guy, Il regno del pianeta delle scimmie e Furiosa) o, tornando in Europa, con l’Ungheria e la sua media di produzioni che si staglia attorno alle 250 in un anno – facendo vincere anche degli Oscar, come i tre conquistati dal The Brutalist di Brady Corbet.
Dazi al 100% sui film stranieri da parte di Donald Trump: quali sono state le reazioni?
Che uno slittamento significativo degli investimenti ci sia stato è ovvio, ma è anche parte di un gioco di finanziamenti e incentivi che contribuiscono alla buona salute delle casse dei vari Paesi coinvolti, per un consapevole e fruttuoso scambio che regola le domande e le offerte. E che hanno fatto subito insorgere i rappresentati degli altri Paesi, come il ministro degli interni australiani Tony Burke, il quale ha affermato che «nessuno deve avere dubbi sul fatto che ci batteremo in modo inequivocabile per i diritti dell’industria cinematografica australiana», o il primo ministro neozelandese Christopher Luxon, più calmo e in attesa di scoprire quali saranno le effettive intenzioni di Trump sulle prossime tariffe.
Per quanto la trovata di Trump possa risultare inaspettata, la sua ossessione per l’audiovisivo è in verità un pallino fisso: basti pensare all’attenzione che prima ancora del suo secondo mandato aveva posto sul cinema e la sua funzione – a questo punto diremmo nazionalistica. Un autentico arruolamento da parte del tycoon di tre vecchie star come Sylvester Stallone, Mel Gibson e Jon Voight, nominati ambasciatori «speciali» e insigniti del compito di risanare la presunta crisi affrontata da Hollywood – anche lì causata, sembrerebbe, da quattro anni in cui l’industria avrebbe perso molti dei suoi affari proprio a favore dei Paesi stranieri.
Usa contro Cina: il mercato cinematografico è sempre più teso
Che Donald Trump abbia notato uno spostamento dell’attenzione da parte del pubblico e degli addetti ai lavori, finanziaria quanto culturale, è possibile. Ma è la bellezza della pluralità, che vuole nel 2020 un film coreano come Parasite conquistare l’Oscar e The Substance di Carolie Fargaet e Emilia Pérez di Jacques Audiard, ben due dei film più significativi della scorsa stagione dei premi, avere entrambi una matrice francese – con la Francia che per l’audiovisivo offre il 30% di percentuale sulle spese sostenute sul territorio. Le conseguenze di una tale chiusura, legata sempre alla pratica dei dazi, è inoltre ciò che sta portando alla frattura maggiore con la Cina, che già da inizio 2025 ha preso la decisione di rallentare l’importazione di film statunitensi.
E forse servirebbe che qualcuno ricordi al Presidente quanto il mercato cinese possa fare la differenza sul box office e, dunque, sull’andamento del panorama cinematografico nel mondo. Con la Cina diventata un punto di riferimento per l’industria e che incoraggia le proprie produzioni locali così da non dover più dipendere da territori come, per l’appunto, gli Stati Uniti. Pur con gli analisti pronti ad affermare che gli Usa avrebbero più da perdere che guadagnare dalle folli imposte, per Donald Trump resta fondamentale il messaggio: «Vogliamo che i film siano di nuovo prodotti in America!». Meno male che nel 2025 il cinema sembra aver virato verso l’indie, a quanto pare unica soluzione che potrebbe restare ai filmaker di domani.
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