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perché Trump punta su Meloni “spitfire” per convincere l’Ue a sfidare la Cina – Il Tempo


Luigi Bisignani

«A Donald Trump piacciono le bionde», ironizza un generale a riposo, già collaboratore del tycoon, chiacchierando con Il Tempo. Ma non tutte: in Europa detesta Ursula von der Leyen, mentre elogia Giorgia Meloni, che descrive agli amici come una «spitfire», una sorta di peperina. Forte di questo apprezzamento, Meloni vola alla Casa Bianca con l’intento di ritagliarsi un ruolo lasciando momentaneamente le beghe nostrane: le tensioni con Matteo Salvini, che vuole il Viminale; il pasticcio dei migranti ammanettati verso l’Albania; il caos nei servizi di sicurezza (Dis, Aise e Aisi) ormai paralizzati; e l’agenzia della cyber, dove al posto di un prefetto pensionando come Bruno Frattasi, dovrebbe arrivare Riccardo Galletta, l’ennesimo Carneade del settore sia pur con gli alamari a tre stelle, per la felicità degli hacker e di quegli esperti informatici come Andrea Mavilla, capaci di bucare la rete e scovare i numeri di telefono delle più alte cariche dello Stato. Ma è proprio alla Meloni che Trump vuole affidare un compito delicato, non fidandosi del tedesco, del francese e nemmeno, considerandolo troppo amico degli altri due, dell’inglese. Con la provocazione sui dazi ha dato prova di essere capace di tutto, addirittura di mettersi anche contro la Federal Reserve così Trump probabilmente chiederà a Meloni di fare una scelta per lei e per l’Europa: non è il momento di andare contro gli Usa, ma di mettersi tutti insieme contro la Cina. Esattamente quanto già avvenuto durante l’amministrazione Biden.

 

 

Infatti meno di un anno fa la segretaria del Tesoro Janet Yellen sollecitò l’Europa a introdurre dazi contro il paese del Dragone per arginare l’espansione dell’industria cinese, specialmente nei settori dei veicoli elettrici e dei semiconduttori. Allora, come oggi, la risposta europea è stata prudente. La presidente della Commissione europea, von der Leyen, ha dichiarato che l’Ue non avrebbe seguito l’approccio degli Stati Uniti nell’imporre nuovi dazi, preferendo un’indagine antisovvenzioni per valutare eventuali contromisure. Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha espresso perplessità. Nel frattempo, il presidente cinese Xi Jinping ha già alzato la sua muraglia, convocando alcuni leader europei, spagnolo in prima fila, ed esortando l’Ue a collaborare con Pechino per «resistere insieme alle prepotenze unilaterali». Nel 2024, l’Ue ha esportato in Cina beni per 213,3 miliardi di euro, ma ne ha importati 517,8 miliardi: un deficit commerciale di 304,5 miliardi. Meloni rischia di trovarsi all’angolo, ma si sa: è proprio lì che, solitamente, dà il meglio di sé. In agenda potrebbe spuntare l’idea di un centro di coordinamento strategico sulla Cina tra Europa e Stati Uniti. Lei, comunque, tenterà di riportare il discorso sulla collaborazione industriale, rilanciando il contributo che le grandi aziende pubbliche italiane possono offrire agli Stati Uniti, soprattutto Eni, Enel, Leonardo e Fincantieri. Quest’ultima, con Pier Roberto Folgiero e sulla scia di Giuseppe Bono, ha puntato molto sugli Usa: nei giorni scorsi ha inaugurato un terminal a Miami, poco distante da Mar-a-Lago, e presto aprirà due grandi cantieri al nord della Florida, grazie all’efficientamento tecnologico made in USA, come hanno già fatto colossi come Airbus e Hyundai. Musica per le orecchie di Trump, che ha voluto alla Casa Bianca un desk dedicato alla cantieristica.

 

 

Meloni è consapevole della superiorità tecnologica degli Stati Uniti sull’Europa e ricorda spesso come i pionieri della Silicon Valley abbiano cambiato il mondo in pochi decenni. Ammira anche la grande rete di Starlink, soprattutto alla luce dei clamorosi ritardi dei programmi satellitari europei, pur sottolineando l’importanza della sicurezza e riservatezza nella trasmissione di dati, ambito in cui l’Italia vanta eccellenze. Dal canto suo, Trump sparerà a zero contro i regolamenti e le leggi europee che, in nome della privacy e di un ambientalismo esasperato, scoraggiano le aziende americane a investire in Italia e nell’Unione. Il tycoon non comprende e non sopporta le logiche bizantine che, secondo lui, bloccano lo sviluppo del Vecchio Continente. Vorrebbe un’Europa rapida e reattiva. Un’Europa, in una parola, «americana». Perché se il Vecchio Continente fosse in grado di tenere il passo, si potrebbero fare grandi cose insieme. Ma anche perché, a ben vedere, l’idea che la Cina «rubi» proprietà intellettuali, possieda manodopera a basso costo, senza diritti e abbia devastato l’industria occidentale è condivisa da entrambe le sponde dell’Atlantico, anche se l’Ue, ogni tanto, decide di chiudere un occhio.

 

 

Una politica altalenante, quella europea verso Pechino, che denuncia una certa debolezza. Gli Stati Uniti, invece, sia con Biden che con Trump sono sempre stati coerenti. Infine, l’invasione di prodotti cinesi nei nostri mercati comincia a non piacere più nemmeno al consumatore medio italiano ed europeo. Forse è il caso di pensarci bene prima di cedere all’emotività. Con Trump, del resto, è tornato il primato della politica, così come in Cina, Russia ed India. Il tempo della finanza e dei grandi fondi è finito: a Londra e a New York iniziano ad accorgersene. E Trump pensa di trovare, in una leader politica forte come Meloni, la «Spitfire» giusta per fare fronting in Europa contro la Cina. In questo scenario, la premier italiana si muove cercando di bilanciare gli interessi nazionali con le dinamiche internazionali, cosciente che il suo ruolo potrebbe essere decisivo nel definire le relazioni tra Europa, Stati Uniti e Cina. Pronta a «benedire» investimenti italiani importanti in Usa e ad aumentare le spese per la difesa fino al 2% del Pil. Una scelta che comporta sacrifici ma diventata ormai ineludibile, come sostiene da tempo giustamente Guido Crosetto. Si vedrà se gli italiani continueranno a darle ragione o se stanno già guardando oltre. Anche per questo Giorgia deve puntare all’Election Day assieme alle regionali del 2026. Chi si ferma è perduto.


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