Perché l’amministrazione Trump vuole fare un simbolo di Luigi Mangione
Poco prima delle 13 di venerdì 25 aprile, Luigi Mangione ha fatto il suo ingresso in un’aula del tribunale federale di Manhattan passando dalla porta sul retro. Vestito con l’uniforme carceraria beige e scortato dagli agenti federali, aveva un’espressione impassibile. Ma una volta seduto accanto al suo avvocato, Marc Agnifilo, si è lasciato sfuggire qualche sorriso.
Durante i 35 minuti dell’udienza, convocata dopo l’incriminazione federale per stalking e omicidio del CEO del settore sanitario Brian Thompson, Mangione è rimasto perlopiù in silenzio, spettatore del proprio destino giudiziario. Alle 13:06 ha avuto modo di pronunciare solo poche parole: «Sì, l’ho vista», alla domanda se avesse letto l’incriminazione; «sì», per confermare di aver avuto tempo sufficiente per esaminarla; «rinuncio», per non farla leggere in aula. Infine, la dichiarazione di rito: «Non colpevole».
Se l’udienza in sé è stata priva di colpi di scena, il carico morale e politico che la circonda è tutt’altro che lieve. L’omicidio di Thompson è avvenuto dopo la rielezione di Donald Trump, ma circa un mese e mezzo prima del suo secondo insediamento. Il caso ha avuto una risonanza globale istantanea, trasformando Mangione in una sorta di eroe per alcuni ambienti: un volto telegenico, portavoce involontario di un messaggio che ha trovato eco in molte fasce della popolazione. Per l’amministrazione Trump, la vicenda ha rappresentato l’occasione per mostrare i muscoli punitivi, diventati rapidamente uno dei tratti distintivi di questo secondo mandato presidenziale. Giovedì, il giorno prima dell’udienza, i procuratori federali hanno annunciato formalmente l’intenzione di chiedere la pena di morte.
«Mangione ha scelto di uccidere Thompson in queste circostanze per amplificare un messaggio ideologico», hanno scritto i procuratori, «massimizzare la visibilità e l’impatto dell’omicidio e provocare una resistenza diffusa contro il settore industriale in cui la vittima operava».
A fine marzo, dopo una serie di atti vandalici ai danni delle concessionarie Tesla – presumibilmente in segno di protesta contro Elon Musk – la procuratrice generale degli Stati Uniti, Pam Bondi, ha diffuso un video disorientante: volto impassibile, tono gelido. «Se prenderete parte all’ondata di terrorismo interno contro le proprietà Tesla», ha dichiarato con voce monocorde, «vi troveremo, vi arresteremo e vi metteremo dietro le sbarre». Questa è, in gran parte, la cifra retorica adottata dal dipartimento di Giustizia sotto l’amministrazione Trump: una comunicazione aggressiva e spettacolarizzata, spesso veicolata con entusiasmo tramite i social media per lanciare le misure più repressive. Secondo i legali di Luigi Mangione, l’annuncio di Bondi circa l’intenzione di chiedere la pena di morte è stato un gesto deliberato per generare clamore mediatico. Hanno sottolineato come la procuratrice ne abbia parlato apertamente in un’intervista a Fox News e abbia «reso pubblico il provvedimento per avere “contenuti” da pubblicare sul suo nuovo profilo Instagram».
Fuori dal tribunale, qualcuno sembrava incarnare in pieno quello stesso fervore. Scott LoBaido, artista originario di Staten Island e noto alle cronache per le sue creazioni pro-Trump, ha esposto un’opera provocatoria dal titolo Deep Fried Luigi («Luigi fritto»), raffigurante uno scheletro legato a una sedia elettrica con in testa il cappello verde del personaggio Nintendo associato a Mangione. Sopra la sua testa, un cartello recitava senza mezzi termini: «Fanculo Luigi e i suoi seguaci coglioni (Fuck Luigi and His Jagoff Followers).
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