Perché la Fed può tagliare i tassi malgrado prezzi ancora «caldi»
Le attese sono abbastanza univoche. Nella sua riunione di ottobre il Fomc, il comitato di politica monetaria della Federal reserve, taglierà ancora i tassi d’interesse. Il corridoio dei Fed Funds dovrebbe così scendere al 3,75-4% dall’attuale 4-4,25%, con un taglio di 25 punti base. Il più trumpiano dei nuovo governatori, Stephen I. Niran, potrebbe votare per un taglio più incisivo, 50 punti base, come aveva fatto a settembre; difficile però che altri componenti del Board possano seguirlo. Non tutti gli analisti sono però convinti che il presidente Jerome Powell annuncerà, anche implicitamente, un altro taglio a dicembre.
Aspettative verso il due per cento
La Fed si muove infatti al buio, o quasi. Lo shutdown e il blocco delle attività pubbliche essenziali ha ridimensionato, anche se non ha azzerato, il flusso di dati; e in ogni caso l’annuncio dell’inflazione Pce (personal consumption expenditures price index) di settembre – l’inflazione di riferimento per la Fed – era previsto per il 31 ottobre, due giorni dopo la riunione. L’indice Cpi di settembre, eccezionalmente pubblicato il 24 settembre, è risultato inferiore alle attese, ma è comunque pari al 3 per cento: l’attuale politica monetaria appare quindi ancora blandamente restrittiva. Le misure di mercato di aspettative di inflazione di lungo periodo, in ogni caso, continuano a riavvicinarsi all’obiettivo del due per cento
Ancora elevate le attese a breve periodo
Altre misure sono meno tranquillizzanti. Le aspettative a un anno, misurate dall’indice dell’Università del Michigan attraverso sondaggi, puntavano a settembre al 4,7%, dopo il 4,8% di ottobre. I dati inferiori al 3% di dicembre, novembre e gennaio sembrano dunque lontani. Il dashboard, il pannello di controllo sull’inflazione proposto dall’a Fed di Atlanta, continua a segnalare una situazione preoccupante: l’inflazione sottostante appare surriscaldata in tutte le misure prese in considerazione. Anche i salari orari continuano a crescere a un ritmo superiore al 3,5% (ma la produttività oraria, a giugno, era in crescita dell’1,5 per cento).
Rendimenti in rialzo nel medio lungo periodo
Le condizioni finanziarie appaiono in ogni caso in calo, quindi sempre più accomodanti. L’indice dell’Università di Chicago, per quanto ormai meno informativo rispetto al passato – non ha mai segnato restrizione monetaria negli ultimi mesi, malgrado tassi elevati e alta inflazione – scende di nuovo ed è ormai ai minimi da gennaio 2022, poco prima l’invasione dell’Ucraina. Il cambio del dollaro si muove ormai in un corridoio piuttosto ristretto, non lontano dalla media dei dieci mesi dei presidenza Trump, segnata da grandi incertezze sulla politica economica. La curva dei rendimenti è ai minimi da fine 2022 nella parte a brevissimo termine, quella che esprime e realizza la politica monetaria; anche se appare in rialzo – nel medio-lungo periodo – rispetto solo a un anno fa.
Assunzioni in forte calo
L’opinione dominante dei banchieri centrali Usa – misurata dalla mediana delle loro proiezioni individuali – punta in ogni caso a tassi compresi tra il 3,5-3,75% per fine anno, pari ad altri due tagli da 0,25 punti percentuale. Questa indicazione è la base per le attese degli analisti di una nuova riduzione almeno a ottobre (mentre quella del 10 dicembre è nelle mani, per così dire, dei prossimi dati). La Fed, si argomenta, sarebbe più preoccupata dell’andamento dell’occupazione. Il numero di assunzioni, negli ultimi mesi, è effettivamente crollato molto al di sotto della media post-Covid, e si sta avvicinando allo zero.
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