perché è un privilegio inaudito
A Niamey, capitale del Niger, gli altoparlanti delle numerose moschee diffondevano la voce imperiosa e inesorabile dell’invito alla preghiera. Era ormai parte del paesaggio e solo le intempestive interruzioni di corrente elettrica creavano un inedito silenzio nei quartieri della città. Le campane invece no. Pur presenti, spesso in modo clandestino, nelle chiese e alcuni templi, non erano suonate per evitare comprensibili problemi dopo gli avvenimenti del 2015. In quel frangente varie decine di chiese e luoghi di preghiera erano andati distrutti per opera di centinaia di giovani e bambini aizzati e guidati da adulti. C’era stato l’affare Charlie Hebdo in Francia, la caricatura del profeta dell’Islam e una situazione politica interna che, assieme, avevano prodotto la prima grande divisione religiosa nel Paese.
Di ritorno dopo tre anni dal Niger ho avuto modo di riassaporare l’ingenuo e quasi dimenticato suono delle campane che scandivano le ore del giorno. Un richiamo esigente al senso del tempo che, diceva qualcuno, non è altro che il secondo nome di Dio. Chi lavora nei campi sa quando è l’ora di tornare a casa e chi invece si trova in strada si dovrebbe domandare che sta facendo del tempo a lui concesso. In effetti, com’è noto, le campane erano il sistema di comunicazione più immediato per il popolo. La segnalazione delle feste e di avvenimenti drammatici, come incendi o altre calamità, si inframezza coi rintocchi mesti e cadenzati che annunciano il decesso di qualcuno. I rintocchi, ben conosciuti dagli anziani, sono chiamati ‘agonia’, da agone, lotta della vita col transito nelle braccia di sorella morte.
Il numero dei rintocchi può variare a seconda si tratti di una donna o un uomo e l’annuncio del decesso diventa immediatamente di patrimonio pubblico. Non c’erano nascite o morti private nel tempo delle campane per via della dimensione comunitaria e dunque politica, ecclesiale, popolare, della morte. Giorno natalizio era chiamato quel giorno, ‘die natalis’ perché si nasceva, così si crede e spera, alla vita definitiva della patria lontana e vicina ad un tempo. Le campane tornano a suonare quando il corpo del defunto raggiuge la chiesa dove si celebra il funerale e in seguito la sepoltura nel cimitero, spesso adiacente. A ben pensarci si tratta di un privilegio inaudito e al quale si è forse fatta l’abitudine. Per buona parte degli umani non c’è campana, sepoltura e neppure il lutto dei famigliari.
Migranti, richiedenti asilo, rifugiati, avventurieri, corpi dilaniati da mine personali, bombe studiate per ferire il più possibile che, nei deserti, mari e le innumerevoli frontiere innalzate nel frattempo, non avranno neppure un nome da trasmettere a coloro che verranno. Le famiglie non sapranno forse mai dove e come il figlio, il fratello, il padre o la sorella, avranno terminato il loro viaggio. Né l’altoparlante e la voce del muezzin, persona addetta della moschea, né il greve rintocco delle campane avranno accompagnato l’ultimo e tragico transito dell’effimera eterna dimora.
A ottant’anni di distanza, il passato 9 agosto, hanno suonato per la prima volta le campane nella cattedrale di Nagasaki, alle 11 e 4 minuti, ora esatta dello sganciamento della seconda bomba atomica. Domenica prossima le campane suoneranno a festa per celebrare e risorgere con la pace dimenticata.
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