Perché e come Google sta uccidendo i siti web
Il web sta cambiando, molto rapidamente, e la ragione ha un solo nome: Google.
In realtà anche questa è una semplificazione, ma con tanta verità dietro. Per anni ci siamo abituati a cercare qualcosa online e trovare una lista di link da cliccare. Oggi, invece, ci troviamo spesso di fronte a risposte già pronte, generate dall’intelligenza artificiale, senza nemmeno dover entrare in un sito.
Questo cambia tutto: il modo in cui navighiamo, il modo in cui ci informiamo, e soprattutto il modo in cui il web andrà avanti.
Questo articolo nasce dal video qui sopra, che vi invitiamo a vedere prima di tutto perché molto più esaustivo di quanto potrà mai esserlo un artico. Una riflessione su ciò che sta succedendo a Google, ai contenuti online e a chi li crea. E sul perché questo è un problema che ci riguarda tutti.
Com’è nato Google e come è cambiato
Per molto tempo, usare Google significava una cosa semplice: scrivere una domanda e scegliere uno o più di dieci link blu.
I risultati della ricerca erano chiari, ordinati e basati su contenuti realizzati da persone, con stili e punti di vista diversi. Bastava poco per scoprire un nuovo sito, un blog interessante, una voce fuori dal coro.
Quella fase ha segnato un’epoca. Chi aveva un sito ben fatto e sapeva scrivere contenuti utili, aveva buone possibilità di ottenere visibilità e crescere. Era la logica di un web aperto, dove anche il più piccolo dei progetti poteva trovare spazio tra i grandi. E dove la SEO era uno strumento per emergere, non un fine.
Poi qualcosa si è rotto. Prima lentamente, poi sempre più in fretta. I risultati sponsorizzati hanno cominciato a occupare le prime posizioni. Sono arrivati i widget, i caroselli, le risposte rapide. Oggi la SERP è un contenitore affollato, dove i risultati organici sono spesso nascosti in basso, sotto a molti altri elementi.
E ora, con l’arrivo dell’intelligenza artificiale integrata nella ricerca, sparirà anche l’ultimo tassello di ciò che un tempo era il fondamento della ricerca stessa: quei famosi 10 link blu.
Google mostra già la risposta. L’utente legge e passa oltre. I siti vengono citati, forse, ma non visitati. Il meccanismo si è trasformato, e il suo impatto è enorme.
Le colpe condivise
Diamo però a Cesare ciò che è di Cesare. Anche noi creatori di contenuti abbiamo le nostre colpe.
Negli ultimi anni, creare contenuti online è diventato sempre più un esercizio di stile pensato per piacere agli algoritmi, più che per essere davvero utile a chi legge. Frasi ripetute, testi lunghi e poco diretti, parole chiave inserite ovunque: tutto per rispondere ai criteri “imposti” da Google. Il risultato? Un web pieno di articoli che sembrano scritti con lo stampino e soprattutto rivolti più a un algoritmo che a un pubblico senziente.
Molti di noi, nel tempo, hanno infatti iniziato a scrivere più per Google che per le persone. Non per cattiveria, sia chiaro, ma perché erano queste le regole di un gioco nel quale era sempre più difficile emergere. E se non vieni trovato, non vieni letto.
Il problema è che queste regole non sempre premiano la qualità. Spesso premiano chi sa costruire il contenuto perfetto dal punto di vista formale, anche se non dice nulla di nuovo.
E negli ultimi anni la situazione è peggiorata. Dal 2019 in poi, Google ha iniziato pensato più alla monetizzazione che all’esperienza degli utenti, anche a costo di impoverire il motore di ricerca stesso.
Per molte categorie, dai viaggi alla cucina, dalla tecnologia alla salute, i primi risultati sono quasi sempre delle stesse fonti. A tutti gli altri restano a rotazione le posizioni più in basso (c’è un breve e chiaro video al riguardo di Ivano Di Biasi che vi invito a guardare).
E quando arriva un sistema come AI Overview, che ti dà subito la risposta, è naturale che lo si preferisca, perché anziché navigare in una SERP sempre più confusionaria la risposta è subito lì, a portata di mano. Anche se, come vedremo, il prezzo da pagare è alto.
Risposte pronte = meno clic. E poi?
Da qualche mese, anche in Italia, Google ha iniziato a rispondere direttamente alle domande degli utenti, prima ancora di mostrare i risultati veri e propri.
Si chiama AI Overview ed è una funzione che sintetizza le informazioni principali su un argomento e le presenta in alto nella pagina. Il tutto, ovviamente, generato dall’intelligenza artificiale.
Questa novità cambia radicalmente le abitudini online. Se cerchiamo qualcosa e troviamo già lì la risposta, perché dovremmo cliccare su un sito? Secondo stime recenti, l’introduzione di Overview ha già causato una perdita significativa di traffico per i siti web e questo è solo l’inizio.
Il passo successivo è infatti AI Mode, che da pochi giorni è disponibile negli USA, e da noi arriverà nei prossimi mesi, come del resto già è stato per AI Overview.
AI Mode è a tutti gli effetti un chatbot integrato direttamente nella ricerca, con cui interagire in tempo reale. Se la risposta non basta, possiamo fare un’altra domanda, e poi un’altra ancora, senza mai uscire dalla pagina di Google. I link ci sono ancora, ma in quanti li apriranno più. La pubblicità di Google invece è sempre ben presente.
Google ha dichiarato apertamente che l’epoca dei dieci link è finita. Il futuro sarà fatto di risposte conversazionali, rapide, sintetiche, confezionate su misura. Ma quelle risposte non esistono da sole: nascono da contenuti creati da altri. Contenuti che oggi vengono usati, ma non premiati, tanto che la News/Media Alliance americana ha parlato di un vero e proprio furto.
I conti non tornano
Per chi crea contenuti online, il traffico è fondamentale.
Non solo per visibilità, ma per sopravvivenza economica. I siti web si sostengono grazie alla pubblicità, e se nessuno li visita, nessuno vede quei banner. Senza visualizzazioni, non ci sono entrate. E se non ci sono entrate, i contenuti non si producono da soli.
(Ironia della sorte: l’IA adesso li può produrre, ma quella IA costa e si basa comunque su contenuti altrui, quindi nella peggiore delle ipotesi è una IA che scrive sulla base di altre IA.)
Finora, il meccanismo era chiaro: scrivi un buon articolo, ti posizioni su Google, l’utente lo trova e lo legge. Magari non sempre, ma abbastanza spesso da giustificare il lavoro. Con l’arrivo delle risposte AI, questo equilibrio si rompe (e già era bello incrinato per i motivi che abbiamo visto prima). L’utente ottiene ciò che cerca senza cliccare. Google mostra la risposta, mette la sua pubblicità, e l’autore resta fuori.
La cosa più paradossale è che quei contenuti vengono comunque usati. L’AI non inventa: prende, rielabora, sintetizza. In molti casi, si nutre del lavoro altrui, senza restituire nulla a chi lo ha prodotto, salvo qualche briciola.
Se questa dinamica si diffonde, sempre più editori saranno costretti a tagliare, a ridurre la qualità, o addirittura a chiudere. E con loro, spariranno anche tutte quelle voci indipendenti che rendono il web uno spazio ricco, vario, e utile.
La prospettiva è una sola: un Internet sempre più centralizzato, appiattito, e sempre meno vivo.
E questo non riguarda anche i video e le immagini, non solo i contenuti testuali. Già oggi Gemini genera in un attimo il riassunto di qualsiasi contenuto di YouTube, “rubando” di fatto le visualizzazioni di quel creator. È un riassunto infallibile? No, ma per l’utente “pigro”, per quello che si accontenta, basta e avanza.
Per non parlare poi di Veo 3, fresco di debutto al Google I/O, che genera video con audio con una qualità impensabile fino a ieri.
Quanto ci vorrà prima che i filmati generati in toto dall’IA diventino la norma?
“Disruptive”
Una delle promesse più forti dell’intelligenza artificiale è quella di semplificare l’accesso alle informazioni. E in parte lo fa davvero. Ma a che prezzo? Le risposte generate dalle AI non sono sempre precise. Possono contenere errori, fraintendimenti, deduzioni sbagliate. Perché alla base non c’è comprensione, ma probabilità statistica.
Capita spesso che l’IA riassuma male un articolo, confonda un dato, o inventi un’informazione basandosi su un contesto che non ha realmente compreso. E se il contenuto originale è stato scritto da un’altra intelligenza artificiale, l’errore rischia di amplificarsi.
Fino a ieri, il lettore poteva scegliere: aprire due, tre, dieci fonti diverse, confrontare stili, opinioni, interpretazioni. Poteva conoscere chi scriveva, intuire bias e preferenze, costruirsi un pensiero critico. A breve tutto verrà sintetizzato in una singola risposta, senza contesto né voce personale.
E ciò che rende più difficile questa transizione è la sua rapidità. La storia della tecnologia è piena di nuovi dispositivi / servizi che hanno soppiantato i precedenti. Ma ci sono voluti anni, in alcuni casi decenni.
Qui parliamo di cambiamenti che avvengono dall’oggi al domani, che non danno il tempo di adattarsi, di trovare nuovi modelli di business che li rendano sostenibili. E soprattutto parliamo di un cambiamento che non coinvolge un singolo prodotto o servizio, ma l’intero web, senza esclusione.
Il rischio più grande non è solo informarsi peggio. È perdere la pluralità che ha sempre fatto la forza di Internet. Se le fonti diventano tutte uguali, e se chi produce contenuti smette di farlo perché non ha più senso, allora l’intera rete si impoverisce. E con essa, la nostra possibilità di capire davvero il mondo.
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