Pensioni, il 2027 porta tre mesi di lavoro in più: il Governo promette lo stop ma il conto da 1 miliardo rischia di esplodere; chi pagherà davvero la scelta di bloccare l’automatismo sull’età pensionabile?

L’Italia si trova di fronte a una delle scelte più delicate in materia previdenziale degli ultimi anni. Il meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, introdotto dalla riforma Fornero nel 2011, torna al centro del dibattito politico con l’approssimarsi del 2027, quando dovrebbero scattare tre mesi aggiuntivi per il pensionamento
La genesi di un meccanismo controverso
L’adeguamento automatico nasce da una logica apparentemente ineccepibile: se la popolazione vive più a lungo, deve anche lavorare più a lungo per mantenere l’equilibrio del sistema pensionistico. Il principio, codificato nella legislazione durante la crisi del debito sovrano, rappresentava una garanzia di sostenibilità a lungo termine per le finanze pubbliche.
Il calcolo si basa sui dati Istat sulla speranza di vita comunicati ogni due anni. L’ultimo rilevamento, diffuso a fine marzo 2024, ha confermato che dal 1° gennaio 2027 i requisiti pensionistici subiranno un incremento generalizzato di tre mesi. Un aggiustamento che coinvolgerà sia la pensione di vecchiaia (da 67 a 67 anni e 3 mesi) sia quelle anticipate, con soglie che si sposteranno rispettivamente a 43 anni e 1 mese per gli uomini e 42 anni e 1 mese per le donne.
L’impatto sociale: quando i numeri incontrano le storie
Dietro le fredde statistiche si celano 44.000 lavoratori che rischiano di rimanere intrappolati in una zona grigia previdenziale. Si tratta dei cosiddetti nuovi esodati, persone che tra il 2020 e il 2024 hanno aderito a piani di uscita anticipata dal lavoro attraverso isopensioni, contratti di espansione o fondi di solidarietà bilaterali, contando di accedere alla pensione con le regole attuali.
Il paradosso è evidente: lavoratori che hanno pianificato la propria uscita dal mercato del lavoro sulla base di normative vigenti potrebbero trovarsi dal 2027 senza occupazione e senza diritto alla pensione. Una situazione che richiama drammaticamente il caso degli esodati della riforma Fornero, quando migliaia di persone rimasero senza reddito a causa del cambiamento improvviso delle regole pensionistiche.
La matematica implacabile dei conti pubblici
Dal punto di vista finanziario, il blocco dell’adeguamento automatico comporterebbe un esborso stimato di circa un miliardo di euro per il solo biennio 2027-2028. Una cifra che potrebbe sembrare contenuta nel panorama della spesa pubblica italiana, ma che assume dimensioni ben diverse se inquadrata nel contesto più ampio delle dinamiche previdenziali.
La spesa pensionistica è destinata a crescere inesorabilmente: dai circa 365 miliardi di euro previsti per il 2027, raggiungerà il picco del 17,1% del PIL entro il 2040, un valore significativamente superiore alla media europea. Il trend crescente continuerà fino al 2043, nonostante le riforme degli ultimi trent’anni abbiano tentato di contenere l’espansione della spesa previdenziale.
Le opzioni sul tavolo del governo
Come segnala La Repubblica, Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha lasciato intendere che l’esecutivo è orientato verso il blocco, ma le modalità restano da definire. L’ipotesi più accreditata prevede l’inserimento della misura nella Manovra 2026, con copertura attraverso uno scostamento di bilancio concordato con l’Unione Europea.
Tuttavia, questa soluzione presenta aspetti problematici. Uno scostamento richiede l’autorizzazione del Parlamento e deve essere giustificato da circostanze eccezionali. Inoltre, comporterebbe un aumento del deficit pubblico in un momento in cui l’Italia è chiamata a rispettare i nuovi parametri del Patto di Stabilità europeo.
Verso una riforma strutturale?
Il vero nodo da sciogliere non è tanto il singolo adeguamento del 2027, quanto la sostenibilità complessiva del sistema pensionistico italiano. Gli esperti concordano sulla necessità di una riforma strutturale che affronti simultaneamente diversi aspetti: l’equità intergenerazionale, la flessibilità in uscita, l’adeguatezza delle prestazioni e la sostenibilità finanziaria.
Alcune proposte includono l’introduzione di meccanismi di flessibilità compensata, che permettano uscite anticipate a fronte di riduzioni attuariali delle prestazioni, o la creazione di corridoi di uscita più ampi che tengano conto delle diverse tipologie di lavoro e delle condizioni di salute dei lavoratori.
La sfida europea e il confronto internazionale
L’Italia non è l’unico Paese europeo alle prese con queste sfide. La Germania ha introdotto meccanismi simili di adeguamento automatico, mentre la Francia sta affrontando aspre proteste per la riforma delle pensioni. Tuttavia, la specificità italiana risiede nella complessità stratificata del sistema, frutto di decenni di interventi normativi spesso contraddittori.
La decisione che il governo prenderà nei prossimi mesi avrà conseguenze che si protrarranno per decenni. Bloccare l’adeguamento del 2027 potrebbe offrire un sollievo temporaneo, ma senza una visione strategica complessiva rischia di essere solo il rinvio di un problema destinato a riproporsi con maggiore gravità negli anni successivi.
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