Parlare di Hiroshima resta sempre attuale
Gentile Direttore Feltri,
il 9 agosto ricorre l’80° anniversario del lancio della bomba atomica su Nagasaki, avvenuto pochi giorni dopo quella sganciata su Hiroshima. In questi giorni se ne parla molto, come ogni anno. Le commemorazioni si moltiplicano, così come gli articoli, i documentari, le interviste. Mi chiedo: ha ancora senso ricordare con tanta insistenza un evento così lontano nel tempo? Sono passati ottant’anni. La guerra è finita da un pezzo. Davvero serve continuare a tornare sempre lì?
Luca Cortese
Caro Luca,
non soltanto ha senso parlarne, è un dovere. Non perché siamo nostalgici del passato, ma perché quel passato non è affatto finito. È dentro di noi, oggi più che mai. Solo che non ce ne accorgiamo. Siamo troppo distratti, storditi, anestetizzati da una quotidianità fatta di notifiche, superficialità e ignoranza storica.
Io ho imparato a odiare la guerra da bambino. Ero piccolo, a Bergamo, abitavo in un edificio che portava un nome strano, quasi simbolico: Palazzo Stampa, in Città Alta. Proprio lì, davanti casa mia, campeggiava un manifesto. L’immagine di un bimbo fatto a pezzi, smembrato, vittima dell’atomica su Hiroshima. Quello scempio non l’ho mai dimenticato. Mi sconvolse. Quel corpicino straziato divenne per me il simbolo della cattiveria umana, della violenza cieca, del male assoluto. Non riuscivo a capire come gli adulti – quelli sopra i quindici anni mi sembravano già vecchi – potessero essere così crudeli. Associavo a loro la morte, la distruzione, l’ingiustizia, la violenza, la brutalità. Da allora, ogni volta che sento parlare di armi nucleari, la prima cosa che mi torna in mente è quel bambino.
E poi ci sono loro: gli americani.
Un popolo che si vende come difensore della libertà, della democrazia, dei diritti. Tuttavia gli americani sono stati gli unici, sottolineo gli unici, ad aver usato davvero la bomba atomica. Non una, ma due. Su civili. Su bambini. Su donne. Su vecchi. Su città intere rase al suolo con un clic. Loro hanno varcato il limite. Il limite umano. Il limite morale. Il limite assoluto che nessun altro Paese ha mai osato attraversare. E se lo hanno fatto una volta, chi ci garantisce che non possano rifarlo, loro o qualcun altro? Un limite di fatto è stato oltrepassato dall’essere umano. E se è accaduto, può accadere ancora.
Per questo non possiamo archiviare Hiroshima come un capitolo chiuso. Non è chiuso. La storia si ripete. È ciclica. E oggi siamo più vicini che mai al baratro.
Non lo dico io: lo dice il Doomsday Clock, l’Orologio dell’Apocalisse, creato dagli scienziati atomici nel 1947. Misura simbolicamente quanto manca alla fine del mondo. Nel 2024 è stato fissato a 90 secondi dalla mezzanotte: il punto più vicino all’annientamento totale mai registrato nella storia. Peggio perfino della Guerra Fredda. Viviamo in un’epoca in cui il rischio nucleare è tornato ad essere concreto. La Russia brandisce minacce atomiche con regolarità. Gli Stati Uniti continuano a investire in armamenti. L’Iran parla come se già possedesse la bomba. La Corea del Nord ce l’ha e ci gioca. La Cina tace, ma si arma. E l’Europa dorme.
Siamo nel pieno di una corsa al riarmo. Le bombe non sono più tabù: sono tornate ad essere argomento di strategia geopolitica. Si usano come minaccia, come pressione, come ricatto. E noi? Fingiamo che Hiroshima sia roba d’archivio. Un documentario da seguire seduti comodi sul divano di casa.
Macché archivio. Hiroshima è il futuro, se continuiamo così.
Le ricorrenze servono non a piangere, ma a ricordare dove può arrivare l’uomo quando perde il senso del limite.
Non è nostalgia. È allarme. È monito. È tentativo disperato di non commettere lo stesso errore. Perché se dimentichiamo, siamo destinati a ripetere. E la prossima volta, non saranno due bombe. Saranno cento. È sarà la fine dell’umanità.
Hiroshima non è morta.
Hiroshima siamo noi, oggi, che giochiamo col fuoco e pensiamo sia un videogioco.
Per questo, caro lettore, ottant’anni non bastano. Per dimenticare. Per superare. Non basteranno mai.
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