Paolo Virzì: «Ci sono tanti modi per essere genitori, a volte si fa danno, a volte si fa del bene. I ragazzi riempiono le piazze perché vogliono ridefinirsi»
«Un film sulla morte e sulla vita, su come anche il dolore possa generare tenerezza e protezione». Così Paolo Virzì definisce Cinque secondi, il suo nuovo film presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita il 30 ottobre con Vision Distribution. Un racconto sospeso tra la malinconia e la rinascita, tra la campagna toscana e un’umanità che si ostina a cercare senso anche dentro il dolore.
Il protagonista è Valerio Mastandrea, nei panni di Adriano Sereni, ex avvocato di successo, che ha scelto di abbandonare lo studio e la città per rifugiarsi in una villa di campagna ormai in rovina. Lì vive da solo, con la barba incolta, finché la sua quiete forzata viene sconvolta da un gruppo di giovani che occupa la tenuta. A guidarli è Matilde Guelfi Camajani, interpretata da Galatea Bellugi, una ragazza incinta e ribelle che riporta la vita tra i vigneti dimenticati. Lo scontro tra i due – generazionale, emotivo, esistenziale – diventa presto un incontro.
«Avevo in mente la storia, ma svelo le carte man mano», racconta Virzì. «Volevo una campagna non melensa, non il solito Chianti da cartolina. Avevo in mente il volto di Valerio fin dall’inizio. Galatea invece è un po’ una creatura dei boschi, un po’ nobile. In lei c’è qualcosa di arcaico e di nuovo allo stesso tempo».
La riflessione sul ruolo del padre – presenza, assenza, ostacolo o rifugio – attraversa tutto il film. «Il padre può servire, può essere dannoso», spiega Virzì. «Ho raccontato padri orrendi, figure sconcertanti, padri disfunzionali. Ora forse ho provato a guardare con un po’ di tenerezza a questo ruolo. Sono figlio di un carabiniere, un padre severo, e ho cercato di essere un po’ ribelle. Qui non c’è né celebrazione né condanna. Adriano cerca di dimostrare che un padre serve ancora. Dal punto di vista personale credo che ci siano tantissimi modi per essere genitori: a volte si fa danno, a volte si fa del bene».
Accanto a lui, Mastandrea aggiunge una prospettiva altrettanto onesta: «Penso che quella battuta – «oggi un padre non serve», pronunciata da Galatea – serve più che a mostrare la distanza generazionale, a raccontare il mio personaggio. Fa parte dell’evoluzione del ruolo in una famiglia diversa. Da padre, con figli nati da relazioni diverse, mi accorgo che la croce casca sempre sulle donne: c’è una richiesta costante di essere madri in un certo modo, in un certo tempo. Il padre resta sempre un po’ egoriferito. Io, per esempio, non gioco con i bambini perché sono stato abituato così».
«È un film su colpa e cura», continua l’attore. «Anche il finale lo racconta: mi prenderò cura di te perché tu sei pronto a prenderti cura di me. È l’unico modo per sopportare il finale di questo film».
E aggiunge, con la schiettezza che lo contraddistingue: «Questo è l’unico personaggio in cui c’è tanto di me, ma roba molto profonda, non so nemmeno di cosa sto parlando. C’è una certa emotività che mi travolge. Io sembro un attore di pancia, ma non lo sono».
Source link




