Pablo Trincia: «Racconto la morte di Denis Bergamini. Per fare cronaca nera serve studio. Anche per mio nonno prigioniero in Iran ho scelto di stare dalla parte dei deboli»
Serata di sabato 18 novembre 1989. Chilometro 401 della Statale Jonica 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, provincia di Cosenza. Un camion fermo in mezzo alla carreggiata, sull’asfalto, illuminato dai fari del pesante mezzo, il corpo di un calciatore di 27 anni: Denis Bergamini. Lì accanto, una ragazza in lacrime. Si apre così uno dei casi più controversi della cronaca italiana.
Lo ricostruisce Pablo Trincia nella serie Il cono d’ombra. La storia di Denis Bergamini che, dopo l’omonimo podcast, arriva con quattro episodi in esclusiva su Sky TG24, Sky Crime, Sky Documentaries, Sky Sport, in streaming su NOW e sempre disponibile on demand.
Denis Bergamini, nato in provincia di Ferrara, sul finire degli anni Ottanta è un mito in Calabria perché insieme ai suoi compagni è riuscito a portare la squadra del Cosenza Calcio dalla serie C alla promozione in B. In un’intervista video, al giornalista che gli chiede quali siano i suoi progetti per il futuro risponde semplice: «Mi piace vivere». Un desiderio che s’interrompe in quella notte di novembre, su quella strada. All’inizio si parla di un suicidio, un’ipotesi che regge in sede giudiziaria per anni, ma non tra coloro che conoscevano Denis Bergamini. La docuserie è il racconto dell’evoluzione dell’inchiesta fino ai giorni nostri, con il processo del 2021 che, a distanza di oltre tre decenni, riapre ufficialmente il caso.
Chiediamo a Pablo Trincia cosa, in questa storia, lo abbia attratto.
«Con la docuserie E poi il silenzio avevo appena finito di raccontare la tragedia dell’hotel di Rigopiano, travolto da una valanga nel 2017. È stato un grande dramma collettivo e sentivo l’esigenza di cambiare registro. Mi piaceva l’idea di trattare un caso giudiziario, una storia di cronaca nera ancora avvolta nel mistero. All’inizio avevo pensato a un caso di scomparsa, poi ho iniziato a lavorare su un serial killer, che però mi pareva complicato da tradurre in tv. E infatti lo porterò in teatro a partire dall’anno prossimo. Mentre cercavo la storia giusta con gli altri autori, ci tornava sempre tra le mani la vicenda di Bergamini. All’inizio mi sembrava troppo lontana nel tempo, immaginavo che ci fosse poco materiale. Quando ho chiamato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Bergamini, che conoscevo bene per i casi Aldrovandi e Cucchi, mi ha detto che invece era una vicenda ricchissima. Appena ho cominciato a studiare il caso, nella mia testa c’è stato un flash. C’erano testimonianze, fotogrammi di quell’ultima sera di Bergamini: Denis che, fermato dai carabinieri, insiste per farsi identificare ma viene mandato via. Denis che è sul ciglio della strada. Denis sotto un camion. Alcune persone ferme in una piazzola di sosta. Da un cono d’ombra uscivano queste immagini che mi invitavano ad andare al fondo del racconto. Un racconto, però, dove non c’è niente di inventato. Tutto corrisponde a realtà».
Oggi la cronaca nera attira molto, no? L’interesse per i fatti di Garlasco, per esempio, è forte.
«Questa cosa in realtà c’è sempre stata. La novità è che adesso finisce sulle prime pagine dei grandi giornali e nei tg. Invece prima rimaneva relegata in pubblicazioni o rotocalchi secondari. Si è capito il potenziale della materia, si è visto che suscita parecchio interesse e anche morbosità e quindi tutti ci vanno sopra».
Lei che ne pensa?
«Io credo che ci siano due modi di trattare la cronaca. Uno lo chiamerei “cronaca stupida”, quella in cui si tende a spettacolarizzare ogni singola cosa, ogni nuovo elemento, anche la più piccola o insignificante scoperta. Però non si guarda al contesto, si pensa soltanto a fare notizia. Poi c’è la “cronaca intellligente”, dove il giornalista studia il caso e lo racconta, con il dovuto rispetto per le persone che ne sono state protagoniste: gli innocenti ma anche i colpevoli. Spesso sono storie di disagio, di dolore, di tristezza. Ci sono famiglie devastate. La cronaca intelligente presuppone che ci sia uno studio approfondito, una comprensione delle cose, una spiegazione. Non basta scrivere in sovrimpressione la parola “Esclusivo” per sparare la notizia del momento. Non c’è nulla di esclusivo nella morte di una ragazza. Io cerco di fare un tipo di racconto diverso, non chiacchiere da bar. Fare cronaca bene è come saper stare a tavola: qualcuno conosce le buone regole, altri no».
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