Non è odio religioso etichettare in giudizio i Testimoni di Geova come una setta
Esclusa la condanna per diffamazione aggravata dall’odio religioso per il legale che, negli atti difensivi, etichetta i Testimoni di Geova come una setta che pianifica la sottrazione dei beni patrimoniali dei familiari che non appartengono allo stesso gruppo. Le espressioni, benché, diffamatorie, non sono punibili penalmente se le frasi sono collegate alla causa. LaCassazione ha così respinto il ricorso della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova e di una loro fedele che si stava separando dal marito, confermando il verdetto della Corte d’Appello che, in linea con il Tribunale, aveva dichiarato non punibile – in base all’articolo 598 del codice penale che scrimina le offese contenute negli atti legati al ricorso – per il delitto di diffamazione aggravata dal discorso di odio religioso, commesso dal difensore del marito della donna, attraverso le espressioni contenute nelle memorie.
Il legame diretto con la causa
I giudici di merito avevano constatato la valenza lesiva delle espressioni usate dall’imputato negli atti processuali, ritenendo però che «riguardassero in modo diretto e immediato l’oggetto della controversia nell’ambito della quale erano state pronunciate». Era dunque stato considerato irrilevante il fatto che le offese si riferivano anche alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, soggetto estraneo ai processi nel cui ambito erano state pronunciate. Per la Corte territoriale le espressioni incriminate non integravano poi l’aggravante contestata né come «discorso d’odio», nè come istigazione alla violenza. E, allo stesso modo aveva escluso la calunniosità, visto il contenuto generico degli scritti difensivi, utili nella causa civile di divisione del patrimonio immobiliare in comproprietà con la ex coniuge e in quella che riguardava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel mirino dei giudici erano finite le affermazioni secondo le quali la ex coniuge faceva parte di un gruppo religioso «che pianifica la sottrazione dei beni patrimoniali dei familiari che non appartengono al medesimo gruppo, e che ella aveva distrutto la vita del coniuge e della famiglia a causa della sua fede religiosa».
La libertà di difesa
La Suprema corte ricorda che «la ragione dell’immunità giudiziaria si coglie nell’esigenza di assicurare la libertà di difesa e garantire la discussione delle parti contendenti, anche nel caso di offesa non necessaria, ma che si inserisca nel sistema difensivo dei procedimenti con funzione strumentale». Né può essere invocata la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo in tema di odio religioso.
L’odio religioso
La giurisprudenza europea, in tema del cosiddetto discorso d’odio, e la giurisprudenza di legittimità relativa alla circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso, richiamate dalle parti civili – precisa la Cassazione – non possono essere estese al caso esaminato. E questo perché «dette pronunce – si legge nella sentenza – attengono alla diversa questione dei limiti al diritto di manifestazione del pensiero, e specificamente al diritto di critica in relazione a espressioni offensive, che incitino alla discriminazione o all’intolleranza e più in generale alla possibilità di escluderne l’antigiuridicità, laddove, invece, nell’ipotesi di cui all’articolo 598 del Codice penale detta antigiuridicità resta ferma». Ad avviso della Cassazione è dunque «ragionevole concludere che solo il giudice della causa in cui le frasi offensive furono scritte o pronunciate possa valutare, a conclusione del giudizio, se la giustificazione di quelle offese debba escludere anche la risarcibilità del danno non patrimoniale eventualmente patito da colui cui furono rivolte».
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