Salute

Non c’è riduzione dell’orario di lavoro settimanale senza questione salariale

di Simone Lauria*

La recente proposta di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro settimanale, presentata da diverse forze politiche di opposizione, si inserisce in un quadro più ampio di riflessione nel quale è doveroso considerare la situazione italiana dal punto di vista dei salari, della produttività e dell’occupazione: in Italia, si lavora di più che in altri Paesi a fronte di salari reali non adeguati.

Orario di lavoro, quantità da produrre, quantità di prodotto per ore lavorate sono elementi da considerare contestualmente per comprendere se una riduzione dell’orario di lavoro può andare a beneficio dell’occupazione, che è da considerare necessariamente uno degli obiettivi che la proposta di legge dovrebbe perseguire.

La crescita dell’occupazione è attenuata dalla crescita del prodotto per ora lavorata; è invece incrementata dalla riduzione dell’orario di lavoro annuo per occupato; da qui, deriva che per far sì che l’occupazione cresca, allo stesso saggio di crescita del prodotto, si deve ridurre l’orario di lavoro: ma in che misura? Tendenzialmente, l’orario dovrà diminuire di quanto aumenterà il prodotto per ora lavorata al fine di garantire l’equilibrio della relazione.

Se il prodotto per ora lavorata rappresenta la misura della produttività del lavoro su base oraria, è necessario domandarsi in quale misura il valore aggiunto complessivo che ne deriva deve essere distribuito tra salari e profitti; le imprese, come si potrà presumere, hanno l’obiettivo di ridurre la quota a favore dei salari a beneficio di quella a favore dei profitti: ma in che modo? O riducendo la quantità di lavoro necessaria per la produzione di un’unità di prodotto, aumentando quindi la quantità di prodotto per ora lavorata con l’introduzione di innovazioni e tecnologie per efficientare il processo produttivo; oppure, a parità di quantità di prodotto per ora lavorata, alterando il rapporto tra salari e prezzi, aumentando quest’ultimi.

Una cosa è certa: le politiche di contenimento dei salari hanno ripercussioni negative sulla domanda aggregata; in Italia, diverse analisi dimostrano che una crescita, seppur bassa, del prodotto per ora lavorata è accompagnata da da una crescita relativamente elevata dei prezzi, a dimostrazione che il valore del prodotto per ora lavorata è la conseguenza di una politica di contenimento dei salari e di un’alterazione del rapporto tra salari e prezzi.

Se cresce il prodotto per ora lavorata, quanto tale crescita influisce sull’occupazione? Le condizioni affinché la riduzione dell’orario di lavoro possa andare a beneficio dell’occupazione presuppongono che l’orario di lavoro diminuisca di quanto aumenta il prodotto per ora lavorata, che i salari orari aumentino di quanto aumenta il valore del prodotto per ora lavorata (perché se i salari crescessero meno del valore del prodotto per ora lavorata, o non crescessero affatto, diminuirebbe la retribuzione reale per occupato, con conseguenze sulla domanda aggregata), che l’occupazione aumenti per mantenere la crescita della produzione stimolata dalla domanda aggregata; in buona sostanza, la crescita del prodotto per ora lavorata potrà andare a beneficio dell’equilibrio macroeconomico generale se aumenta l’occupazione e se si garantisce una crescita adeguata (alle condizioni sopra descritte) dei salari a sostegno dei consumi (e della domanda aggregata) e dunque della produzione e dell’occupazione.

La questione salariale non può quindi prescindere da questa considerazione: una divaricazione tra la crescita del valore del prodotto per ora lavorata (e quindi dei prezzi) e quella dei salari orari si traduce in effetti negativi per il salario reale e per i consumi; ridurre l’orario di lavoro in linea con gli aumenti del prodotto per ora lavorata, consentendo l’allineamento tra salari e aumento del valore del prodotto per ora lavorata, garantirebbe invece vantaggi per l’occupazione.

La crescita della produzione (e del prodotto per ora lavorata) potrebbe però essere condizionata in modo significativo dall’introduzione dei dazi decisa dall’amministrazione Usa, soprattutto se si considera che il nostro modello economico-produttivo è di tipo export- led; la preoccupazione maggiore, dal punto di vista di chi scrive, è quello degli effetti delle politiche tariffarie sui salari; le imprese potrebbero essere indotte a contenere i prezzi, rinunciando solo parzialmente ai profitti, agendo piuttosto sul contenimento dei salari (laddove possibile, ovviamente: dai mancati rinnovi dei contratti nazionali, al depotenziamento degli accordi di secondo livello).

In Italia, proprio alla luce delle considerazioni qui affrontate, la questione salariale è allora dirimente, anche nella discussione di qualsiasi ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro; i dati, nel nostro Paese, sono sconfortanti: si stima che ci sono circa 2,4 milioni di dipendenti con una retribuzione oraria inferiore ai 9,5 euro (in una condizione strutturale, al netto di chi percepisce una retribuzione oraria inferiore per eventi quali la malattia, la maternità e la cassa integrazione); e si tratta di dipendenti spesso apprendisti, o con contratti a termine, o con un rapporti di lavoro a tempo parziale (spesso involontariamente), a dimostrazione del fatto che anche una ipotesi di intervento normativo che istituisca il salario minimo (che però non è nell’agenda politica dell’attuale maggioranza) dovrebbe essere supportata da un ripristino delle regole fondamentali del lavoro nell’uso dei contratti a termine, del lavoro somministrato, del part- time e nei casi di licenziamento illegittimo.

* Ufficio Studi della Camera del Lavoro CGIL di Milano. Laurea in Scienze Politiche, si è occupato di diritto del lavoro e sindacale, di diritto della previdenza e della sicurezza sociale; partecipa a diversi Osservatori di Economia e si occupa di temi legati alla just transition e alla transizione digitale, studiandone gli effetti sul mondo del lavoro.


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