Nicoletta Romanoff: «La perdita di mio fratello mi ha spezzata. Sono stata criticata per aver avuto quattro figli da tre uomini diversi, ma la verità è che sono stati loro a salvarmi»
Se Nicoletta Romanoff ha scelto di raccontare la sua storia lo deve a una sceneggiatura che ha scritto nel 2024 legata all’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 13 maggio del 1981. «Il 13 maggio è anche la data della ricorrenza dell’apparizione della Madonna Fatima: mi accingevo a scrivere le ultime righe e, proprio in quell’istante, pensavo che da quel momento in avanti le mie giornate sarebbero state vuote. Il caso ha, però, voluto che quello stesso pomeriggio Rizzoli mi inviasse una mail in cui mi proponeva di scrivere un libro: questa sincronicità di date e di intenzioni mi ha fatto capire che, forse, quella richiesta arrivasse da più lontano», confessa Romanoff, che ne Il tralcio alla vite, il suo (bellissimo) libro pubblicato da Rizzoli, riflette sul suo percorso di fede partendo dalle ferite e dai bagliori che hanno costellato la sua vita. Dal suicidio dell’amato fratello Enzo Manfredi avvenuto nel 1997, quando lei aveva appena 18 anni, ai suoi quattro figli, avuti da tre uomini diversi, che hanno, inciso non poco sul giudizio da parte di chi le stava intorno. Ci incontriamo a margine dell’incontro di Nicoletta al BCT 2025, il Festival Nazionale del Cinema e della Televisione Città di Benevento giunto alla nona edizione. Parla lenta, sceglie le parola con una cura commovente e il suo sguardo non cerca neanche per un secondo rifugio altrove.
È stato doloroso riaprire certi cassetti della memoria?
«È stato molto doloroso e molto faticoso, soprattutto perché la mia vita non mi permetteva di ritirarmi su un’isola per sgomberare la mente in modo da abbandonarmi alla scrittura. Mi sono ritagliata degli spazi, a volte chiudendomi in bagno a chiave per assecondare un’improvvisa ispirazione e cercare di isolarmi dal caos e dal chiasso che c’erano in casa».
Il libro parte dalla scomparsa di suo fratello: non c’era nessuna avvisaglia di malessere e nessuna spiegazione che giustificasse apparentemente il suo gesto. Non ha mai provato rabbia per quella scelta?
«No, non l’ho mai avuta. La rabbia è un sentimento che è dentro di me ma che non ho mai accostato alla perdita di mio fratello. Mi arrabbio per altre cose».
Per cosa?
«Per le ingiustizie che l’uomo fa verso un altro uomo, per esempio. Su un dolore come il lutto, penso che la tristezza sia così grande che non lascia spazio a molto altro».
Nel libro parla di un dolore sordo che la accompagna per tanti anni: a un certo punto, scrive addirittura che si graffiava e nessuno se ne accorgeva. Perché?
«Ho trattenuto tanto dolore, probabilmente per la paura di affrontarlo e per una certa immaturità di fondo: mi vergognavo di stare male e non volevo mostrarlo. Non volevo appesantire il dolore dei miei genitori che mi pesava tanto: volevo cercare di alleggerire, di rendere tutto molto luccicante. Con il tempo ho imparato che non c’è niente di male a mostrarsi vulnerabili e oggi, da persona adulta, invito tutti ad esserlo: non c’è niente di più autentico della vulnerabilità».
Che cosa rende la vulnerabilità autentica?
«Tutti attraversiamo momenti difficili e tutti tocchiamo il dolore in un modo o in un altro: è una rete che, se condivisa, può sostenere al posto di trascinare giù. È vero, infatti, che la rete può catturare e ingabbiarti, ma può anche sorreggerti per non farti cadere».
Alessia Giallonardo
Quando ha sostenuto il provino per Ricordati di me, il film di Gabriele Muccino che l’ha lanciata nel mondo del cinema, era sposata e madre di due figli ma non lo ha detto. Perché?
«Sapevo che Gabriele cercava una ragazza di 17 anni: io ne avevo 23 e avevo paura che mi avrebbe guardata in modo diverso se avesse saputo che conducevo una vita così adulta, perché lo era davvero. Penso, però, che abbia letto nel mio sguardo qualcosa che coincideva con il personaggio».
Anche da adulti le parole possono ferire. Come l’assistente che le disse che, dopo tre figli, il suo utero non avrebbe più concepito un quarto.
«Una luce esterna ha voluto, invece, che lo avessi. La scienza si ferma dove si ferma il limite dell’uomo, e da una parte penso di aver riportato questo passaggio nel libro proprio per questo: certe volte sarebbe meglio tacere, perché certe parole possono ferire più di qualunque cosa al mondo. A me è stato dato un dono immenso, ma sentire una frase del genere potrebbe frenare una persona a intraprendere un percorso di avvicinamento alla maternità: bisogna essere delicati».
Neanche la Chiesa fu delicata: un prete le disse che non poteva prendere l’eucarestia perché divorziata.
«Come nel caso della Medicina, anche nella Chiesa puoi incontrare qualcuno di straordinario che ti fa vivere le cose in un determinato modo e qualcuno che ti parla in maniera molto cruda: sono le persone a fare la differenza. Sarà per questo che, quando devo prendere una decisione importante, cerco di sentire sempre più di una voce. Nel caso della comunione in chiesa mi è capitata la stessa cosa: ci sono sacerdoti che ti frenano ma anche altri che ti accolgono e ti fanno venire voglia di continuare la tua strada. Io non mi sono mai fermata, mettendoci dieci anni per ottenere l’annullamento da parte della Sacra Rota affinché potessi prendere di nuovo la comunione».
Sempre a proposito di indelicatezza: una delle pagine più violente del libro è quando, mentre stava per partorire la quarta volta, il medico l’ha giudicata per aver avuto tre figli da due uomini diversi.
«È un giudizio del quale sono purtroppo abituata. Certo, non me l’aspettavo in quel momento da un medico… ma che devi fare? Come ho scritto nel libro, in quel momento ho chiuso gli occhi e ho detto: Signore mio, meno male che tu non mi giudichi con questa severità».
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