Salute

nel DNA maschile la resistenza alla parità

di Francesco Valendino

Siamo nel 2025, ma la Conferenza internazionale contro il femminicidio ci riporta in un salotto ottocentesco dove si discute di frenologia tra un brandy e l’altro. I protagonisti del teatro dell’assurdo sono il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e la Ministra Eugenia Roccella. Le loro parole non sono gaffe: sono un manifesto di rassegnazione travestito da pragmatismo.

“Il maschio non accetta la parità, il suo codice genetico fa resistenza”, dichiara Nordio con la sicurezza di chi ha appena scoperto il fuoco. Ecco il Ministro della Giustizia trasformato in biologo evoluzionista della domenica, che offre su un piatto d’argento l’alibi perfetto a ogni uomo violento d’Italia: “Non sono stato io, Vostro Onore, è il cromosoma Y che è reazionario. Il mio Dna è di destra”.

È determinismo biologico da osteria, quello che fa rabbrividire. Se la violenza è scritta nei geni, a che serve la Giustizia? A che serve il Codice Penale se siamo marionette di una doppia elica immutabile? È l’ammissione di una sconfitta totale: il maschio è una bestia programmata, rassegnatevi. Meglio risparmiare sui tribunali e investire in gabbie.

Roccella chiude il cerchio: “Non c’è correlazione tra educazione sessuale e calo dei femminicidi”. Curioso. Se l’educazione non modifica i comportamenti, perché sprecare denaro pubblico nelle scuole? Dovremmo chiuderle tutte e affidarci al destino genetico di Nordio.

La Ministra liquida decenni di pedagogia con una scrollata di spalle. Il messaggio è chiaro: non disturbate la famiglia tradizionale, come se ce ne fosse una o ce ne fosse stata mai una. Meglio che i ragazzi imparino l’affettività su Pornhub o dai video trap. L’educazione al consenso? Roba da radical chic. Il rispetto? Un vezzo progressista.

Queste posizioni negano la radice del problema con l’eleganza di chi ha già deciso di non risolverlo.

Quello che Nordio chiama “resistenza del Dna” si chiama potere consolidato che non vuole essere ceduto. Non è biologia, è cultura patriarcale tramandata per millenni. A volte con le parole, spesso con le clave. Se fosse tutto scritto nei geni, vivremmo ancora nelle caverne a tirarci pietre. L’evoluzione ci ha dato la corteccia prefrontale per inibire gli istinti primordiali, non per giustificarli davanti alle telecamere.

I giovani che uccidono le ex fidanzate non hanno un gene impazzito: hanno un vuoto educativo dove “NO” non è mai stato insegnato come frase completa. L’educazione sessuale moderna non spiega solo “come nascono i bambini”, insegna il consenso, insegna che l’altro non è un oggetto, insegna a gestire il rifiuto senza trasformarlo in ossessione omicida. I paesi del Nord Europa che investono in educazione affettiva dall’asilo lavorano sulla prevenzione a lungo termine, decostruendo gli stereotipi prima che diventino violenza. Ma qui da noi preferiscono contare i cadaveri e dare la colpa al Dna.

I ministri ci stanno dicendo che il problema è nella natura (quindi irrisolvibile) e che la cultura non serve. È la più comoda delle capitolazioni: se è colpa dei geni, nessuno è responsabile. Né lo Stato, né la famiglia, né la scuola. Possiamo continuare a fare convegni, stringerci le mani e tornare a casa con la coscienza a posto.

Ma se loro hanno alzato bandiera bianca davanti a un nemico che chiamano “codice genetico”, la società civile non può permetterselo. La parità si impara, il rispetto si insegna. E il Dna è solo la scusa più elegante per chi non vuole fare la fatica di evolversi — o di governare davvero.​​​​​​​​​​​​​​​

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