Native Sun – Concrete Language
New York è una città che non appartiene a nessuno, ma c’è chi ci arriva per un preciso motivo, e ci arriva per restare.
I Native Sun ne sono la dimostrazione perfetta: una band composta da ragazzi che New York l’hanno scelta. Non ci sono giunti per caso, né per via di una strana eredità.
Il cantante Danny Gomez è nato in Colombia e cresciuto in Florida. Il batterista Nico Espinosa arriva dall’Argentina. Anche il bassista Justin Barry e il chitarrista Jack Hiltabidle non sono figli diretti della città, ma l’hanno raggiunta per farci qualcosa, musica, in questo caso.
Ed è proprio in questa città, più precisamente nel quartiere di Brooklyn, che i quattro iniziano a muovere i primi passi, fino ad arrivare alla realizzazione del loro primo album: “Concrete Language”.

Credit: Bandcamp
Brooklyn è un elemento chiave nell’identità dei Native Sun e spesso compare nelle loro interviste come un luogo vivo, fatto di spazi, incontri e suoni che hanno plasmato il loro stile.
“Concrete Language” non è solo un album composto da una serie di brani ma è pure un documento d’identità : porta con sé l’eco di questo quartiere, con i suoi bar fumosi, i locali sotterranei e le piazze brulicanti di vita. La band racconta di aver trovato la propria voce nelle notti trascorse a suonare nei piccoli club di Williamsburg e Bushwick, spazi che per loro sono più di semplici palchi, sono luoghi di resistenza e incontro.
Citano spesso il Saint Vitus Bar come uno dei templi della scena underground dove hanno affinato il loro suono, un posto dove il pubblico “non chiede, partecipa” e dove “la musica diventa carne e ossa“.
L’atmosfera intima e brutale di questi locali si riflette nelle tracce di “Concrete Language”, spesso registrate “live in studio”, per catturare quell’energia irrefrenabile.
Se l’attitudine è quella del punk e lo si può subito percepire sin dal primo brano “Down my Line” la band ama sconfinare in parecchi stili, quel “mai ripetersi” che sembra sia il motto a cui s’ispirano.
Jack, il chitarrista, ha un debole per l’energia sporca e selvaggia degli Stooges, ma è anche uno che non si tira indietro davanti all’impegno politico: i Fugazi sono una delle sue bussole. Nico, alla batteria, viene da un mondo più teatrale e spontaneo: cita spesso Little Richard e Chuck Berry come riferimenti di pura energia da palco. Ma nel suo modo di suonare c’è anche l’ombra nera dei Misfits, quella durezza punk un po’ macabra, che non si nasconde di certo mentre picchia furiosamente sulle pelli.
Justin, al basso, è quello che ascolta le cose più “strane”, se vogliamo: ama le melodie imprevedibili dei Guided By Voices, quelle che non sai mai dove stanno andando, e i paesaggi taglienti e fragili dei Nine Inch Nails. Un mix di delicatezza e rumore, lucidità e distorsione.
E poi c’è Danny, il cantante. Lui ti spiazza. I suoi riferimenti non sono proprio da classico frontman garage: Leonard Cohen e Nina Simone. Due voci che hanno sempre parlato da posizioni scomode.
Danny parla spesso del suo vissuto da immigrato, del desiderio di restare autentico, di cercare giustizia attraverso la musica. E in fondo è questo che succede nei loro brani: la rabbia non è fine a sé stessa, è una forma di resistenza e d’identità.
Questa varietà di gusti personali si riflette nella scrittura dei brani, che cambia pelle da una traccia all’altra. C’è dentro tanto post-punk britannico, ma anche, e perché no, una certa aria da Britpop, con un paio di pezzi che sembrano proprio fare l’occhiolino alle chitarre spigolose degli Oasis e a quel cantato sfrontato alla Liam Gallagher: parlo della già citata “Down My Line“ e di “Go Out And Play“, che sembrano usciti da un pub di Manchester piuttosto che da un club di Brooklyn.
C’è anche spazio per il punk rock più sfrenato, ed è tutto in “This Mess”, una bomba a orologeria pronta a esplodere. “Whose Kids”, invece, sembra uscita da un jukebox impolverato degli anni ’60, ma con lo spirito un po’ beffardo e teatrale degli Who o dei Kinks: è un pezzo scanzonato, che gioca con l’energia della British Invasion.
“Adam” e “No” affondano le radici nel garage rock anni ’90, quello sporco, diretto, che ti investe senza troppi fronzoli. Un’attitudine figlia degli Stooges, ma con l’approccio metropolitano tipico della scena di fine millennio.
La vera sorpresa arriva con “I Need Nothing“: un groove liquido e ipnotico che ti trasporta dritto nella Madchester degli Stone Roses, con quel mix di malinconia danzabile e chitarre che richiamano chiaramente lo stile di John Squire. E, parliamoci chiaro, mica ci dispiace! Non te lo aspetti, ma ti ci perdi volentieri.
Ci piacciono questi Native Sun. Ci piace questo loro amore sincero per il buon rock del passato. Certo, e non me ne vogliano i simpatici ragazzi di Brooklyn, “Concrete Language” non brilla per originalità: i brani si muovono su strade collaudate, ben ancorate a ciò che è già stato. Chi cerca momenti di sperimentazione o spunti davvero contemporanei, forse, resterà un po’ a digiuno.
Ma a conti fatti, “Concrete Language” è soprattutto una testimonianza di quello che la band riesce a trasmettere dal vivo. E questa energia, questa urgenza, la si percepisce eccome, anche su disco.
È un primo passo solido, fatto con convinzione. E siamo pronti a scommettere che sapranno evolversi, trovare una voce tutta loro, un suono che li renda davvero riconoscibili. Le basi ci sono tutte: una grande passione, una visione che nasce dalle esperienze personali, una presenza che sul palco diventa concreta e, perché no, anche una sana voglia di rivincita.
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