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Nadia Mayer di Casa a prima vista: «Quando sono diventata madre ho rinunciato al lavoro: volevo i miei figli avessero quello che non ho avuto io. Mio padre era un despota, per un po’ ho vissuto in collegio»

Nel momento in cui ci sentiamo, Nadia Mayer è impegnata nelle riprese della nuova edizione di Casa a prima vista in Abruzzo ma, nonostante la stanchezza, non potrebbe essere più felice. «L’affetto mi ha letteralmente travolta e, all’inizio, non ci avevo fatto i conti: sono stata catapultata in una realtà nuova che mi ha permesso non solo di essere riconosciuta e abbracciata dai bambini ma anche di entrare nelle case degli italiani in un momento così importante come la cena, in cui ti ritrovi dopo una giornata di lavoro e racconti com’è andata. Vivo questa esposizione con un certo senso di responsabilità: sapere che molti italiani trascorrono quel momento in nostra compagnia è entusiasmante», racconta Nadia, che definisce questa nuova fase della sua vita come una «seconda giovinezza». Forse anche alla luce di un’infanzia non facilissima che l’ha portata a crescere troppo in fretta.

Che cosa caratterizza questa seconda giovinezza?
«Una grande attenzione alla sensibilità degli altri che mi porta a dire: tratta gli altri con il rispetto che tu vorresti e ti aspetteresti. Vale anche nel mio lavoro: la correttezza e la professionalità non devono mai prevaricare l’altro, e il fatto di essere ascoltata da così tante persone ogni sera lo considero un privilegio».

Nadia Mayer sognava di essere ascoltata?
«A volte le persone pensano che se sei bella sei automaticamente stupida: la bellezza è un dono, ma non bisogna vergognarsi di possederlo, senza contare che è la bellezza dell’anima quella che esce prima di quella esteriore. Lo dice anche Giorgio Armani: la moda la puoi acquisire ma lo stile è un’altra roba. Da ragazzina mi è stato impedito di dire e fare tante cose».

Nadia Mayer di Casa a prima vista «Quando sono diventata madre ho rinunciato al lavoro volevo i miei figli avessero...

Damino Rosa

Com’era da ragazzina?
«Timida, parlavo poco: esattamente il contrario di come sono adesso. Avevo una carica che ho dovuto reprimere per tanto tempo, ma adesso non mi tengo più niente».

Quanto tempo ci ha messo a trovare la sua voce?
«A volte, per il quieto vivere, molte donne abbozzano e si lasciano andare bene certe situazioni per non avere rogne e portare avanti altre priorità. Da piccola ero molto remissiva, non rispondevo, e vivevo molto male il fatto che qualcuno potesse limitare i miei pensieri e i miei desideri. Per fortuna con il tempo le cose sono cambiate: oggi sono una donna felicemente in menopausa e particolarmente esplosiva, con molta forza sia mentale che fisica, e se sono così è anche per tutto quello che ho vissuto, nel bene e nel male».

Da bambina sognava di fare da grande?
«Imitavo la Carrà, facevo le recite in casa, ma volevo anche fare la veterinaria perché ho sempre sentito una grande connessione con la natura: ancora oggi rispetto moltissimo gli animali, tant’è che sono vegana. Sono argomenti che mi toccano molto e sui quali non capisco perché tanti non si espongano».

Che infanzia ha avuto?
«Purtroppo non felice perché avevo un papà despota che ho subìto molto. Gli esseri umani, però, non sono nati per subire ma per essere felici: quando qualcuno ti costringe a essere chi non sei bisogna avere il coraggio di mollare. Per anni ho vissuto le situazioni tossiche che si respiravano in casa tra mio padre e mia madre, che subiva in silenzio. Ho voluto molto bene al mio papà, ma l’ho anche molto odiato, e penso che sia stato per questo che nella vita ho avuto diversi problemi ad approcciarmi all’universo maschile: mi mancava la fiducia e avevo paura. Fortunatamente ho avuto un compagno che mi ha amata molto».

Mai una ribellione da parte di sua madre?
«A un certo punto mia madre ha trovato il coraggio di lasciare per un periodo mio padre e noi figli siamo dovuti andare in collegio: avevo otto anni e sentivo un gran bisogno di trasmettere amore nonostante l’infanzia me ne avesse privato. Sarà per questo che ho deciso di avere cinque figli – ho tre femmine e due maschi -: dovevo colmare quello che non avevo. Gli anni del collegio li ricordo, però, con dolore. Specie quando arrivava il fine settimana e, non potendo mia madre venire a prendermi, tornavo nella camerata da sola, con dieci letti vuoti. Allora mi mettevo sotto le coperte e parlavo con il mio amico immaginario o con l’angelo, visto che era un collegio di suore».


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