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Morte, periferie, glaciazioni e distopie nella recente narrativa italiana

Lasciate dunque perdere le idee di fuga o di vendetta, avevano ormai deciso che si sarebbero accontentati di quella grotta, che sarebbe stata la consolazione per tutti i loro dolori. Fisicamente inaccessibile a Donaiki e a ogni altra fonte di pericolo, il regno del calore sarebbe sempre stato tutto per loro, nascondiglio e rifugio dove scaldarsi con il tepore del fuoco, la bellezza dei dipinti e la grandezza del loro amore. Quell’amore che continuavano a fare come se fosse sempre la prima volta. Quell’amore che fecero anche quel giorno, unendosi nell’amplesso che il dipinto di Artzai aveva reso eterno.

L’uomo che resta, di Marco Niro (Les Flâneurs Edizioni), è un ottimo romanzo, originale e con un approccio narrativo libero e nitido, che abbraccia parecchi millenni di storia (passata, presente e futura). Le tematiche sociali si confondono con quelle ambientali in questa sorta di avventurosa saga epica che inizia nel Paleolitico (durante la glaciazione che vede uomini e animali cercare nuove terre per sopravvivere), dove Artzai, giovane cacciatore emarginato dal suo clan per colpa di una deformazione fisica che lo ha reso zoppo, rifugiatosi in una grotta fa un’incredibile scoperta.

La storia si sposta nell’attualità, in una terra surriscaldata, sulla quale gli uomini sembrano incapaci di trovare soluzioni alla sempre più pressante inospitalità climatica. Protagonisti di questo secondo segmento narrativo sono due archeologi, Glenda e Bruno, che si avventurano nei meandri della terra e che troveranno, qui, un assioma di arcaica provenienza.

Nel futuro distopico, invece, gli abitanti di Gilanos portano avanti una stoica resistenza al torrido clima e Clizia, eroina improvvisata, scopre un pericolo devastante curiosando tra gli oggetti misteriosi del vecchio mondo. Ricco di dettagli, con richiami, forse inconsapevoli, alla narrativa d’avventura di inizio Novecento e di Walter M. Miller Jr. e Robert A. Heinlein, L’uomo che resta è un libro ricco di significati e di moniti per quello che potrebbe essere il traguardo dell’umanità, sempre più disattenta al precipitare naturale (e artificiale) degli eventi.

Ho ucciso mio fratello. O almeno, è quello che mia madre tenne a specificarmi fin dal momento in cui fui in grado di capire quanto per lei fosse importante avere due figli anziché uno solo. Non uno come me. Con un altro figlio avrebbe potuto provarci, sperare di crescere quel bambino tanto sognato nelle notti in cui, pensando che fosse solo uno, si accarezzava il pancione sdraiata sul suo letto singolo. Non ci provò mai più. Come se quel tentativo andato a vuoto, fosse la prova che dovesse andare così fin dal principio. Eravamo in due. Ma sono nato solo io.

Ci sono molti modi, di Valerio Valentini (Readerforblind), è un notevole testo che tratta il tema della morte e del paradosso che, senza di essa, la vita non avrebbe senso. Il protagonista della storia è Riccardo, trentenne che ha come occupazione quella di aiutare gli aspiranti suicidi a morire. La singolare attività, generata dallo shock di aver visto un’impiccagione nel bel mezzo del suo primo amplesso anni indietro, è considerata a tutti gli effetti un lavoro (remunerato, con tutte le implicazioni e le instabilità del caso) e mette in luce la repulsione del protagonista per i riti della società consumistica e le pratiche che governano i rapporti tra la maggior parte degli esseri umani.

Narrato in prima persona, scomodo, a tratti antipatico (e volutamente mancante di empatia), Ci sono molti modi è un ottimo esordio letterario, permeato di rabbia e coraggioso nel cercare di abbattere (o di far ragionare) sui tabù della società contemporanea, capace di descrivere, oltre agli stati d’animo degli attori coinvolti, anche la decadente, squallida immensa periferia romana che arriva fino al mare. Un mare grigio e desolante. Panorama adatto per guidare gli aspiranti suicidi verso qualcosa di cui nessuno di noi può saper nulla.


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