«Mio padre è stato una vittima, come il piccolo Ermanno Lavorini»: Alessandro Meciani racconta la sua battaglia per la verità
L’intervista – dice Alessandro Meciani – si può fare, ma solo se si ribadisce «l’assoluta estraneità ai fatti di mio padre», «se si sottolinea che anche lui è stato una vittima degli eventi» e «l’assoluta smentita che mio padre abbia avuto inclinazioni omosessuali».
Sarà fatto, tanto più che è questa la verità: Adolfo Meciani, il padre di Alessandro, nei primi mesi del 1969, è stato il principale sospettato di un delitto che aveva scosso l’Italia intera, quello di Ermanno Lavorini, un bambino di 12 anni che il 31 gennaio 1969 scompare da Viareggio e viene poi trovato morto, sotterrato nella sabbia di Marina di Vecchiano.
Si cominciò a parlare di un giro di omosessuali e pedofili che facevano cose losche nella pineta di Viareggio e Marco Baldisseri, un ragazzo che allora aveva sedici anni, e che pure frequentava quella pineta, indicò Adolfo Meciani come il rapitore e l’omicida del piccolo Ermanno.
Non era vero: era invece proprio Marco Baldisseri, insieme ad altri due ragazzi, spinti da chissà quali motivazioni pseudo-politiche legate al Fronte Monarchico Giovanile, ad aver ucciso il bambino.
Adolfo Meciani, però, nel frattempo era andando in carcere, nel frattempo aveva subìto la gogna, nel frattempo si era ucciso, per il dolore e per l’ingiustizia subìta. Morì il 24 giugno 1969.
Oggi suo figlio, che all’epoca dei fatti aveva 1 anno e mezzo, è assessore al Turismo di Viareggio, una città, dunque, da cui non è scappato, sventolando anzi, proprio lì, il suo cognome.
L’intervista ad Alessandro Meciani
Perché ha deciso di restare in una città che aveva additato suo padre, in una città che porta le tracce di un fatto per lei così doloroso?
«Credo che in questa domanda ci sia l’essenza di tutta la vicenda. Nella vita metà delle cose sono quelle che ti accadono, e metà sono quelle che derivano da come reagisci. Perché sono rimasto? Io ho sempre avuto un punto fermo, quello di riabilitare il cognome che porto, facendo emergere sempre con chiarezza che mio padre, oltre al piccolo Ermanno Lavorini, è stato un’altra vittima di quell’orrenda vicenda. Volevo tener acceso il faro, continuare a far luce su quella storia. Non potevo certo scappare. Dovevo anzi mostrarmi, con il mio impegno e il mio comportamento, una persona per bene, seria, corretta, professionale, mantenendo un buon ricordo di mio padre e del cognome che porto addosso».
Ma come si è comportata Viareggio con lei?
«È stata una sorpresa. Ci sono stati due momenti diversi. In un primo tempo, quando c’è stata l’esplosione della vicenda con le accuse infondate nei confronti di mio padre, la città ha sicuramente reagito con con violenza e durezza. Ci sono stati addirittura dei tentativi di linciaggio alla macchina dei Carabinieri che portava mio padre in caserma. Viareggio era molto sotto pressione, per usare un eufemismo. Poi, più tardi, quando sono cresciuto e ho cominciato veramente a frequentare la città, negli anni 80, Viareggio mi ha restituito la possibilità di avere tantissimi amici, che ben sapevano la mia storia e che mi hanno protetto e difeso di fronte a chi si è permesso di fare apprezzamenti sul mio cognome. Sono cresciuto con persone che, insieme a me, hanno gestito il ricordo di quello che è accaduto in quel 1969. Non ho mai provato inadeguatezza o imbarazzo».
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