Società

Mica Macho: «Rendere inclusivo l’ambiente di lavoro? Si comincia con l’empatia da parte degli uomini»

Si chiama gap di percezione. Quando una o più persone non riesce a comprendere quello che provano le altre. Fin troppo spesso parte da questo anche la mancata inclusione sul lavoro tema di cui parlano al WeWorld Festival sabato 19 ottobre Giacomo Zani, fondatore di Mica Macho, community che vuole ripensare il maschile, e Francesco Ferreri antropologo e creatore del profilo @antropoche, nell’incontro dal titolo: Il ruolo degli uomini nella creazione di un clima inclusivo a partire dal mondo delle aziende. «Se ci pensi è un po’ connaturato nell’essere umano: quando io sono in grado di provare empatia, cioè sono in grado di capire e sentire quello che sta provando l’altra persona, allora è molto più facile comprendere, mentre con il maschile ci troviamo di fronte a questo ostacolo: una persona che è nata con un privilegio in qualche modo che fa molta fatica a entrare in empatia con delle situazioni che privilegiate non sono e che però lui in qualche modo non ha mai vissuto direttamente sulla propria pelle. Non è una questione però solo fra due generi» spiega Giacomo Zani.

«Perché è il femminismo è nato prima di altri movimenti? Perché lì si partiva da una chiara evidenza di ostacoli che erano provati da tutte le donne. Noi ci troviamo in una situazione più difficile ovvero quella di far capire, a delle persone che hanno dei vantaggi in questo momento nella società e in qualche modo vivono in una posizione di privilegio, che in realtà non solo alcuni alcune abitudini comportamenti danneggiano altre persone, ma anche che la struttura della società in qualche modo fa male anche a loro. Si tratta della famosa gabbia dorata che in realtà ti toglie molto di più di quello che ti dà» continua ricordando però quanto sia difficile vederlo se si è in una posizione privilegiata.

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«Il posto di lavoro è un po’ un ambiente particolare, studiato anche in antropologia, perché è una società dentro la società. Di fatto tu entri in un luogo in cui hai delle regole, dove passi la maggior parte del tuo tempo, a contatto con delle persone che spesso all’inizio sono sconosciuti o non appartengono alla tua sfera degli affetti, e questo porta ad acuire quella incapacità di cui parlavamo prima, quel gap che è il grosso problema nei posti di lavoro. È ancora più difficile far capire a una persona che non vive nelle discriminazioni sul luogo di lavoro, cosa vogliono dire, come si manifestano e che peso hanno».

Cosa possono fare gli uomini? «Prima di tutto rendersi conto, colmare quel gap di percezione che è le prime cose che noi facciamo nelle aziende. Facciamo dei giochi di ruolo dove mettiamo in scena delle micro aggressioni e facciamo vivere all’uomo il ruolo della donna, magari del ragazzo gay o a seconda di qual è il tema che andiamo ad analizzare. Lo facciamo per attivare quel meccanismo iniziale di empatia, cioè li facciamo mettere in quella posizione e cerchiamo di far capire cosa c’è dietro quel gesto, cosa può esserci. Poi facciamo ascoltare dei racconti, delle testimonianze di persone che hanno vissuto delle discriminazioni, delle microaggressioni. Senza queste premesse qualsiasi lavoro viene percepito come un’imposizione, un qualcosa politicamente corretto, e si alza un muro».

Una volta fatto questo, negli interventi, si cercano di creare una situazione di scambio. «Proviamo a far dire agli uomini quali potrebbero essere delle situazioni in cui hanno visto aggressioni o discriminazioni in atto. Cerchiamo sempre una condivisione di esperienze. Proviamo poi a chiedere agli uomini delle volte in cui magari loro si sono sentiti in qualche modo aggrediti ed è interessante perché in realtà se tu avvii questo processo di gap empatico quello che poi viene fuori è che anche loro si accorgono delle volte in cui hanno subito un’aggressione, magari dal capo».

Il passo successivo è distinguere responsabilità da colpa. «Cerchiamo far capire che noi non siamo lì per dare un voto in pagella, ma per far sì che, da quando ce ne andiamo, dentro l’ufficio si viva meglio tutti e tutte. Fare questo vuol dire veramente mettere le persone a proprio agio, far capire che non c’è giudizio, ma volontà di far emergere i problemi. Questo lo facciamo, per esempio, anche chiedendo che difficoltà loro hanno incontrato o che dubbi hanno perché spesso quello che trovi negli ambienti lavorativi sono persone, magari over 40, che spesso magari non hanno gli strumenti anche per capire alcune cose. Chiediamo, banalmente, che dubbio hai su questo argomento? Tantissime delle situazioni discriminatorie di micro aggressioni o di problemi in ufficio nascono dal fatto che l’uomo non sa bene cosa fare, sa che è in una situazione potenzialmente problematica, non agli strumenti, fa una cosa e magari non non sa che il problema non è solo fare la cosa, ma si può chiedere scusa. Il tema è rendersi conto e capire le reazioni delle persone che sono intorno a te e in qualche modo anche normalizzare il fatto che magari tu non hai ben chiaro che cosa è una persona trans, cosa vuol dire per una persona che ha partorito tornare a lavorare. Bisogna chiedere, sbloccare la dimensione dell’apertura». Questa, per Mica Macho, è la via della consapevolezza che porta gli uomini a diventare parte di un cambiamento e non solo a seguire delle regole aziendali.

Esiste una differenza per età e generazioni con percezioni diverse? «Sì, su due livelli. Ovviamente c’è un una differenza proprio culturale, ma anche di abitudine a parlare di certi argomenti, di lessico, di comprensione di queste situazioni. Però c’è un altro gap che è portato dall’età che è il tema della responsabilità. Chi è più giovane mediamente nelle posizioni junior all’interno di una compagnia si sente meno in difficoltà a sbagliare e ad essere giudicato: fa un po’ più parte della tua quotidianità il fatto che qualcuno ti dica che non hai fatto bene una cosa. Più si è in una posizione senior più il fatto che io venga e ti faccio notare che alcuni comportamenti siano sbagliati pesa sulla tua autovalutazione di te stesso e sull’immagine proiettata all’interno di una dimensione aziendale».




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