Merito, l’Italia è l’ultima in Ue
Il Quotidiano del Sud
Merito, l’Italia è l’ultima in Ue
Il concetto di meritocrazia imperversa nel dibattito pubblico e aziendale da decenni; L’Italia è ancora ultima in Ue. La necessità di rimuovere gli ostacoli all’accesso equo alle opportunità
All’inizio del 2025, Accenture – uno dei colossi globali della consulenza – ha deciso di eliminare i propri obiettivi globali di diversità e inclusione. L’azienda ha dichiarato che questi strumenti non sono più necessari, perché opera già in un sistema pienamente meritocratico. A prima vista, la dichiarazione potrebbe sembrare la testimonianza di un’azienda che ritiene di aver superato le barriere storiche e di garantire pari opportunità a tutti. Eppure, a ben guardare, quella di Accenture somiglia più a una rinuncia che a un traguardo.
A rivelare le contraddizioni di questa posizione è un articolo pubblicato da El País l’8 marzo 2025, intitolato “Il mito della meritocrazia: perché l’uguaglianza di opportunità non succede in modo naturale”, in cui si mette in discussione la retorica meritocratica spesso usata dalle aziende per auto-assolversi da politiche più incisive e strutturate. La verità, a ben vedere, è semplice: non può esserci vera meritocrazia se non si interviene per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’accesso equo alle opportunità.
Il concetto di meritocrazia imperversa nel dibattito pubblico e aziendale da decenni. È rassicurante pensare che le posizioni di potere e successo siano il frutto di talento, impegno, competenze, ma questa visione assume un presupposto fragile: che tutti partano dalle stesse condizioni. Nella realtà, invece, esistono barriere invisibili ma persistenti che favoriscono alcuni e ostacolano altri. Bias nei processi di selezione, mancanza di flessibilità lavorativa, ambienti poco inclusivi, modelli di leadership rigidi: sono solo alcune delle dinamiche che penalizzano donne, persone con disabilità, migranti o chiunque non rientri nello stereotipo dominante del “manager ideale”.
Queste barriere non sono marginali o accidentali, ma strutturali. La decisione di Accenture, quindi, è emblematica. Eliminare gli obiettivi di diversity significa rinunciare a uno degli strumenti più efficaci per riequilibrare la rappresentanza e correggere distorsioni interne. L’azienda sostiene di aver ormai internalizzato una cultura inclusiva, ma in assenza di meccanismi di monitoraggio e correzione, il rischio è quello di scivolare in una meritocrazia di facciata, dove sopravvive il vantaggio storico di alcuni gruppi.
Il panorama italiano conferma queste dinamiche. Secondo il Meritometro 2025, pubblicato da Fondazione Etica in collaborazione con Il Sole 24 Ore, l’Italia è ultima tra 12 Paesi europei in termini di meritocrazia. Con un indice medio del 27%, il nostro Paese mostra gravi criticità nella trasparenza, nella capacità di valorizzare i talenti e nella mobilità sociale. Paesi come Finlandia (66%), Danimarca e Olanda guidano la classifica grazie a sistemi equi, meritocratici, capaci di attrarre e trattenere i migliori. In Italia, invece, la selezione dei vertici – nel pubblico come nel privato – è ancora fortemente influenzata da relazioni personali, reti informali, dinamiche clientelari.
Uno dei settori più colpiti dalla mancanza di meritocrazia è la Pubblica Amministrazione. Un’analisi della piattaforma Formazione e Cambiamento parla apertamente di un problema sistemico. La progressione di carriera spesso non premia la competenza, ma l’anzianità, la fedeltà o il peso politico. Questa distorsione non solo scoraggia i giovani più preparati, ma compromette l’efficienza dell’intero sistema-Paese.
In particolare, le donne risultano penalizzate: nonostante rappresentino una fetta significativa dei laureati e degli impiegati pubblici, rispettivamente il 60% e il 58,9%, occupano solo il 30% delle posizioni dirigenziali nella Pubblica Amministrazione. Inoltre, i meccanismi di valutazione della performance appaiono opachi o del tutto assenti, rendendo difficile premiare il merito e favorire una reale equità nelle progressioni di carriera.
L’Italia è tra i Paesi Ocse con minore mobilità sociale. Un’analisi di Data4Biz rivela che il 60% del patrimonio delle famiglie più ricche deriva da eredità: si nasce ricchi o poveri, mentre raramente si cambia status. Il merito, in questo contesto, diventa una narrazione consolatoria. L’istruzione, l’impegno, il talento personale faticano a contrastare il peso dell’origine familiare. Questo blocco della mobilità sociale si riflette poi nei livelli retributivi, nelle opportunità educative, nella qualità dell’occupazione.
Il principio di meritocrazia mostra i suoi limiti anche quando si confronta con l’esperienza quotidiana delle persone con disabilità e dei lavoratori di origine straniera. In entrambi i casi, il talento spesso resta invisibile, ostacolato da sistemi rigidi e da stereotipi persistenti.
Secondo i dati Istat più recenti, solo il 32% delle persone con disabilità in età lavorativa è occupato, contro un tasso medio nazionale di oltre il 60%. Il divario si aggrava considerando la qualità dell’impiego: ruoli precari, mansioni non qualificate, limitato accesso alla carriera. In molti casi, la mancanza di misure di supporto personalizzate e l’inadeguatezza dei percorsi di inserimento lavorativo rendono il mercato del lavoro un terreno impervio, dove il merito personale fatica a emergere.
La situazione non è molto diversa per i lavoratori migranti. Sebbene il loro tasso di occupazione sia paragonabile a quello degli italiani, la disparità si manifesta nei ruoli ricoperti, nelle condizioni contrattuali e nelle retribuzioni. Secondo il rapporto annuale Inapp, i cittadini stranieri guadagnano in media il 27% in meno rispetto ai colleghi italiani, anche a parità di ruolo. Inoltre, i titoli di studio ottenuti all’estero sono spesso sottovalutati o non riconosciuti, generando un fenomeno diffuso di sovra-istruzione: molti lavoratori stranieri sono impiegati in mansioni molto al di sotto delle loro competenze reali.
In entrambi i casi, si tratta di barriere invisibili ma profondamente strutturali, che rendono la “gara” del merito tutt’altro che equa.
La retorica meritocratica, se non supportata da misure strutturali, finisce per consolidare le disuguaglianze anziché superarle. La meritocrazia non si afferma spontaneamente: richiede visione strategica, responsabilità pubblica e volontà organizzativa. Dove mancano politiche attive e strumenti correttivi, il talento resta subordinato alla posizione di partenza, e il merito rischia di diventare una narrazione autoreferenziale, mentre l’equità è sempre il risultato di una costruzione collettiva.
Il Quotidiano del Sud.
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