Lazio

Memoria resistente al femminile: la Brigata “Alice Noli”

MEMENTO 

6 Giugno 1944, il “D-Day”, un giorno niente affatto come gli altri

“A volte mi chiedo da che parte stia Dio.”

“Signori, la guerra la incominciamo da qui.”

“Su questa spiaggia solo due categorie di uomini possono restare: quelli che sono morti e quelli che moriranno!” 

“Tanto ci ammazzano qui! Quindi tanto vale andare a morire un po’ più avanti!”

(dal Film “Il Giorno Più Lungo, una produzione USA del 1962, diretta daDarryl F. ZanuckKen AnnakinBernhard Wicki e Andrew Marlon)

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Dall’Etere britannico ai francesi, come si trattasse di un omaggio, poetico:

Qui Radio Londra, trasmettiamo alcuni ”messaggi speciali” per i nostri amici francesi“I lunghi singhiozzi dei violini d’Autunno” // “Feriscono il mio cuore con monotono languore”.

Questi due versi di “Chanson d’Automne”, una poesia di Paul Verlaine (1844-1896) composta dal Poeta francese nel 1866, furono inviati, nel 1944, da Radio Londra come “messaggi speciali” alla Resistenza francese.

Lo furono in due diversi momenti: il primo verso – trasmesso il 1° Giugno 1944 – per indicare la decisione alleata dello sbarco in Normandia e perché i Maquis (in lingua corsa “la macchia” e dunque “coloro che si danno alla macchiai Partigiani francesi, si preparassero a sabotare le retrovie tedesche. Il secondo verso – trasmesso il 5 Giugno – indicava, invece, l’imminenza dello sbarco in Normandia, l’imminenza del “D-Day”, la spallata alleata alla Fortezza Europa” nazifascista.

Il termine “D-Day” (“Giorno D” o “Giorno Giorno”) non ha alcun significato particolare ma, durante l’ultima guerra mondiale, veniva usato genericamente dai militari anglosassoni per indicare il giorno in cui si doveva iniziare un attacco o un’Operazione di combattimento.

Verrà utilizzato anche per indicare lo sbarco alleato sulle coste francesi della Normandia del 6 Giugno 1944 e da quella volta sarà sempre utilizzato per riferirsi a quella Operazione militare, nota anche come “Operation Overlord” (“Operazione Signore Supremo”) che oggi – esattamente 81 anni fa – segnò l’inizio della liberazione dell’Europa continentale dall’occupazione tedesca, durante la Seconda guerra mondiale.

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Il “Giorno, più lungo”

Era l’alba di un Martedì apparentemente come gli altri e i soldati tedeschi, che erano di guardia alle fortificazioni costiere della Normandia (facenti parte del cosiddetto “Vallo Atlantico” e fatte in parte costruire dal Feldmaresciallo Erwin Rommel, che comandava quel Settore militare) si aspettavano di vivere l’ennesima giornata tranquilla, ma videro, invece, in lontananza, sul mare piatto e liscio come una tavola, una lunga linea grigia – indistinguibile nettamente per la foschia di quell’alba – che si avvicinava lentamente alla costa normanna.

Quel momento, nella finzione cinematografica, lo ricorda la battuta che il personaggio del Tenente tedesco Pluskat indirizza al suo Comandante, dopo avere visto, quel Martedì 6 Giugno ’44, la flotta d’invasione alleata di fronte a lui: Ricorda quelle navi che secondo lei gli Alleati non avevano? Beh, le hanno!”. E subito dopo cominciò, da parte di quelle navi, un bombardamento formidabile di quel pezzo di costa francese.

Quella che il Tenente tedesco del Film vide quel giorno era, in realtà, la più potente forza militare d’invasione mai messa in campo da un Esercito, durante una guerra che comprendeva: oltre 1.200 navi da guerra fra cui 5 corazzate che scortano 800 Navi-cargo piene di truppe e veicoli, 700 imbarcazioni di appoggio e oltre 4.000 mezzi da sbarco con oltre 150.000 soldati e 800 fra carri armati, blindati e altri veicoli.

Era iniziato così il “Giorno, più lungo” – cominciato con lo sbarco, il 6 Giugno del 1944, delle truppe alleate: americani, inglesi, francesi, canadesi su cinque differenti spiagge, con nomi in codice: Utah Beach e Omaha Beach riservate alle truppe Usa; Gold Beach e Sword Beach alle truppe britanniche e Juno Beach a britannici e canadesi – e concluso 55 giorni dopo, il 25 Agosto, con la liberazione di Parigi.

Dopo 55 giorni di durissimi combattimenti, era terminata l’invasione alleata della Francia ed era iniziata la liberazione dell’Europa occupata dai tedeschi. E anche su quel fronte di guerra i nazisti – pur resistendo accanitamente per giorni e giorni – si apprestavano ad essere sconfitti – potremmo dire, parafrasando il Comunicato radio del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, della sera dell’8 Settembre 1943 – “dalla soverchiante potenza avversaria”.

Alice Noli (che in realtà si chiamava Felicita Agostina ed era nata nel 1906 a Campomorone, in Provincia di Genova) era una ragazza piena di passioni: amava il canto e la pittura, e spesso scendeva da Campomorone fino al centro di Genova per ottenere un autografo dai suoi artisti preferiti. A 16 anni aveva cominciato a lavorare alla Brambilla, una Ditta di pelletteria nel Quartiere genovese di Pontedecimo.

Ma – con l’occupazione tedesca dell’Italia (in codice l’”Operazione Achse” – una come Alice non poteva restare  a guardare. Fece assidua propaganda partigiana, procurò aiuti e rifornimenti e collaborò con i Gruppi di Difesa della Donna, la più importante Organizzazione femminile di sostegno alla Resistenza. Nel Gennaio del 1944 entrerà a far parte della 3° Brigata Garibaldi “Liguria”, comandata dall’ex Capitano degli Alpini Edmondo Tosi (Ettore) che arrivò a raggiungere le 500 Unità, prima di venire spazzata via dal rastrellamento della Benedicta, nell’Aprile successivo.

Alice, scoperta e catturata insieme ad altri sei compagni, venne portata nelle Caserma delle Brigate Nere: poiché si rifiutava di fornire informazioni, fu caricata su un camion e infine fucilata, insieme ai suoi compagni anche per rappresaglia dopo l’uccisione di due militi delle Brigate NereAlice era stata seviziata e uccisa dalle milizie nere per essersi rifiutata di confessare quello che sapeva della resistenza di quel territorio e aver dato sepoltura ad alcuni tra i 147 Partigiani ammazzati nell’eccidio della Benedicta, nell’Aprile del 1944. Proprio lei che, dimostrando una grande umanità aveva salvato un milite repubblichino, padre di un bambino piccolo, dalla rabbia di operai antifascisti

Felicita Agostina (Alice) Noli (1906-1944)

Nel nome di Alice Noli si costituì, nell’Autunno del 1944 in Liguria, la prima (ed unica) Formazione Partigiana armata composta tutta da donne. Tra le sue combattenti la più anziana aveva settantadue anni, si chiamava Uga Baduel e usava il nome di battaglia di “Nonnina”. La più giovane, Adele Rossi, ne aveva quindici ed entrambi i suoi genitori erano stati deportati. Lei morirà in combattimento e sarà sepolta a Bolzaneto. La Vice comandante della Brigata, Vincenzina Musso, nome di battaglia ‘Tamara’, nascondeva le armi nel Banco del Lotto del paese di San Martino di Campasso e le trasportava nella Rimessa dei tramvieri di Sampierdarena, attraversava tutta la vallata, arrivava a Pontedecimo e riforniva i partigiani di base alle Capanne di Marcarolo (754 metri d’altezza), oggi Frazione del Comune di Bosio (Alessandria).

Numeri resistenti al femminile

Sul totale delle partigiane combattenti nei 20 mesi della Lotta di Liberazione, stimate in 35mila, 700 furono le liguri (una riceverà la Medaglia D’oro al Valor Militare e 11 quella D’Argento) e senza di loro, senza queste donne, forse a Genova non sarebbe andata come tutti sappiamo, ovvero con una resa da parte dei nazisti siglata il 25 Aprile del 1945 a Villa Migone dal Comandante in Capo delle truppe tedesche in Liguria, il Generale Gunther Meinhold, e il CNL, nella persona dell’operaio Remo Scappini che di quel CNL era il Presidente e con una Medaglia D’oro al Valor Militare  assegnata alla città per la Resistenza ai nazifascisti e la cacciata dei tedeschi.

Nei mesi successivi, alla sua costituzione, la Brigata Partigiana femminile, forte di 160 Unità combattenti, che già operava sui monti di Genova – svolgendo una funzione di raccordo tra gli Stabilimenti industriali della Val Polcevera e i nuclei partigiani – adotta il nome di “Alice Noli”. Con l’inizio della guerra, le donne avevano sostituito gli uomini in molti luoghi di lavoro, sviluppando coscienza di genere e iniziando le prime lotte per la parità salariale. L’8 Marzo ’45, le donne della ‘Alice Noli’ distribuirono clandestinamente a Genova 20mila volantini e realizzarono oltre 500 scritte sul selciato, per testimoniare il proprio ruolo nella Resistenza.

Dopo la Liberazione, nel grande corteo del 1° Maggio in cui sfilarono tutte le Formazioni Partigiane, qualcuno non vedeva di buon occhio la presenza della Brigata femminile. Un dirigente delle SAP – Squadre d’Azione Patriottica – disse ad una Partigiana della “Noli” di stare attente a sfilare in pantaloni, perché avrebbero rischiato di sembrare delle “poco di buono”. Lei gli rispose in malo modo e assicurò che avrebbero cucito delle gonne per il corteo, ma lo mise in guardia dal toccare le armi dei fascisti che loro stesse avevano conquistato in battaglia.

Ad Alice Noli sono state intitolate una strada a Genova e una a San Martino di Campasso, una Scuola Materna di Pontedecimo e una Scuola Media di Campomorone. Inoltre, nel 1989, le venne attribuita dal Presidente della Repubblica la Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria, con la seguente motivazione:

Alice Noli, giovane staffetta, si distinse per il suo coraggio e la sua dedizione alla causa della Resistenza, operando con abnegazione e spirito di sacrificio. Catturata insieme ai compagni partigiani, le fu offerta la grazia e la libertà in quanto donna, ma ella rifiutò per la sua dignità di partigiana, preferendo rimanere unita ai compagni e affrontare la morte insieme a loro. Il suo sacrificio è un esempio luminoso di spirito di sacrificio e di amore per la libertà, rendendola degna di riconoscenza e onore – 8 Agosto 1944”.

Il 22 Aprile scorso, nell’ambito delle celebrazioni per il 25 Aprile a Campomorone è stata inaugurata la Mostra “E allora ho capito che bisognava esserci”, sulla storia di Alice Noli e la Resistenza taciuta delle donne. L’esposizione, riedizione della Mostra del 2014, ha posto l’accento sulla Resistenza delle donne e sul loro ruolo determinante, sottolineando, ancora una volta, che la Resistenza femminile è stata una Resistenza sofferta e taciuta, e contiene anche di una sezione dedicata ad Alice Noli.

Due citazioni di e su Lidia Beccaria Rolfi:

“Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, [i partigiani] tiravano sempre fuori l’atto eroico: “… però noi!” I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro… e noi eravamo prigionieri.” (Lidia Beccaria Rolfi in AA.VV., Italiane. Dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra (1915-1950)

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Grande disturbatrice, la battaglia contro fascismo e negazionismi non le impedisce di criticare l’equazione resistenza = lotta armata, che oscura ogni altra forma di opposizione antinazista, a cominciare da quelle attuate in Lager; di strapazzare gli amici deportati per il loro maschilismo; di imporre la presenza femminile nelle sedi più restie. Cuore vigile, prende posizione contro i crimini del presente, convinta che compito dei sopravvissuti sia testimoniare il Lager e insieme farsi portavoce di tutti gli oppressi, in primo luogo dei meno ascoltati.” (Anna Bravo su Lidia Beccaria Rolfi)

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Certo le pagine di un libro non possono contenere tutta una vita, anche se la descrivono a parole. Ma un Libro (nel caso in oggetto una Biografia) può servire a segnalare a chi lo legge i momenti salienti di quella vita e le scelte che si sono fatte e si fanno e può servire a guardarsi indietro per capire da dove veniamo e a chi dobbiamo la nostra vita e quello che con essa riusciamo a costruire intorno noi.

Tonino Guerra, noto scrittore, poeta e sceneggiatore cinematografico che era stato un Internato Militate, un IMI, nel Campo d’Internamento di Troisdorf, in Germania, ricordava – a sé stesso e agli altri – che non solo occorreva fare Memoria della Storia e delle persone che l’avevano resa viva, ma diceva: “La memoria è indispensabile e ti dirò di più: quando mi chiedono che cos’è la Storia, che cos’è la Memoria, io racconto sempre che mio nonno quando camminava si guardava continuamente indietro.». «Una volta gli chiesi: «Nonno perché vi voltate sempre indietro?». «Lui mi rispose: «Bisogna, perché è da lì che viene il modo per andare avanti». «Quindi è giusto che un popolo, che una persona, che un paese, tenga conto di quello che hanno dato quelli venuti prima di loro.”.

Ecco, guardarsi indietro e cercare di capire (e ricordare) chi per te è stato un punto di riferimento, non solo per crescere ma per aiutarti nel cercare di venire a capo dello “gnommero” (copyright del Commissario Ciccio Ingravallo del “Pasticciaccio Brutto”) ingarbugliato della vita e delle cose del mondo, portandoti a “capire e capirci”.

Per me, che amo la Storia (soprattutto quella del ‘900), una delle persone che mi hanno aiutato a capire si chiamava Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996) la “Maestrina Rossana”. Partigiana combattente garibaldina e deportata sopravvissuta (Matricola N.44140 del KL di Ravensbruck, il ”Ponte dei Corvi”). “Maestrina”, perché era stata per davvero Maestra Elementare e quello era il nome di battaglia che si era scelta entrando a far parte della 15^ Brigata Saluzzo dell’11^ Divisone Partigiana Garibaldi che operava nella Valle Varaita, dove Lidia Beccaria Rolfi era stata Staffetta. Da lei, meglio dalla lettura di quanto ha scritto di questi due importanti momenti della sua vita, molto ho appreso e sono momenti di crescita dei quali resti grato a chi li ha propiziati, anche se non puoi più ringraziarla di persona..

Nella vita della “Maestrina Rossana” ci sono stati due momenti importanti;: quello della scelta partigiana e quello della deportazione.ma nella sua vita c’è stato anche un terzo momento importante e si tratta del momento in cui – uscita viva dalla Lotta armata di resistenza antinazifascista e sopravvissuta al Lager di Ravensbruck – comincia a mettere per iscritto, da sola o in compagnia di altre sopravvissute al Lager, come Anna Maria Bruzzone o Storici, come lo stesso Maida e altri, non solo i ricordi di quell’esperienza, ma i ragionamenti che aveva elaborato e su cui aveva lavorato; ragionamenti che presentava alla riflessione dei lettori, perché capissero e crescessero tra e con le pagine dei suoi Saggi.

Dunque sto scrivendo per ricordare una persona che molto ha dato alla riflessione storica, soprattutto relativa alla deportazione e in particolare alla deportazione femminile e un riconoscimento importante a questa sua opera divulgativa è arrivato di recente grazie ad un Saggio biografico su di lei dalla cui lettura ho tratto lo spunto per scrivere questa Nota. Si tratta di “Non si è mai ex deportati”, scritto da Bruno Maida, pubblicato nel 2008 dalla UTET e ri-pubblicato quest’anno dalla Einaudi, nella Collana ET.

Bruno Maida, “Non si è mai ex deportati” – il Libro

Maestra elementare, staffetta partigiana, deportata a Ravensbrück, autrice di due importanti volumi sulla deportazione, Lidia Beccaria Rolfi è stata una figura fondamentale sia per la sua caparbia volontà di costruire una testimonianza femminile dell’esperienza concentrazionaria sia per la sua ribellione rispetto ai ruoli, alle convenzioni e al conformismo, all’esclusione. E questa biografia di Bruno Maida, che ne ripercorre l’intera esistenza, senza limitarsi alla vicenda concentrazionaria, dimostra l’eccezionalità di una delle grandi voci dell’orrore del Lager. Una «grande disturbatrice» che, al suo ritorno, ha rotto il muro di silenzio crea­to attorno ai deportati dall’indifferenza di chi avrebbe dovuto ascoltare. Un saggio appassionato e appassionante che ci restituisce l’immagine di una donna forte e fragile al tempo stesso, che ha saputo elaborare senza pietismo e vittimismo la propria terribile esperienza e ha reso quel dolore una chiave per leggere il mondo.

(Fonte:https://www.einaudi.it/catalogo-libri/storia/storia-contemporanea/non-si-e-mai-ex-deportati-bruno-maida-9788806268121)

Del Saggio di Bruno Maida su Lidia Beccaria Rolfi trovate appresso la recensione firmata, al tempo dell’Edizione UTET del Saggio, da Valentina Greco e pubblicata sul Sito web della SISSCO, la Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea e di seguito ancora un estratto della recensione del Saggio di Maida, scritta da Alessandra Chiappano e pubblicata sul N. 1/2009 del Mensile dellANED, “Triangolo Rosso

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Bruno Maida – “Non si è mai ex deportati”. Una Biografia di Lidia Beccaria Rolfi – 2008

La produzione storiografica italiana sul tema della deportazione è fatta in gran parte di volumi collettanei, nati spesso da occasioni d’incontro e riflessione come convegni e seminari; dall’altro lato ci sono le storie dei singoli, che raramente sono biografie scritte da storici, un genere che in Italia è stato poco praticato su questo tema .L’importanza del genere biografico come mezzo di arricchimento della storiografia della deportazione è evidente, soprattutto quando i soggetti dell’analisi sono personaggi allo stesso tempo così esemplari e così eccezionali come Lidia Beccaria Rolfi.

Maida, nel suo saggio, ripercorre tutta la vita di Beccaria, non limitandosi alla vicenda concentrazionaria. D’altra parte, però, è impossibile non sottolineare che la deportazione è un evento cruciale ed un elemento chiave nella vita di Lidia.

Questa è la storia del difficile percorso di una donna che ha saputo analizzare dall’interno la violenza del Lager, rompendo l’indicibilità attraverso la memoria; una donna che, al suo ritorno, ha rotto il muro di silenzio creato attorno ai deportati dall’indifferenza di chi avrebbe dovuto ascoltare, in un momento in cui la deportazione, in quanto esperienza di «non vincitori», diventava scomoda per la rifondazione dell’immagine nazionale.

Una delle prime questioni che Maida pone nel suo saggio è proprio quella sull’utilità e sulla necessità storiografica della biografia, sottolineando che essa, tra l’altro, è un utile strumento di indagine del rapporto tra l’individuo e la società. E lo è, aggiungerei, da due punti di vista: quello del rapporto tra il soggetto della biografia e il contesto culturale all’interno del quale è vissuto e quello del rapporto tra l’autore della biografia e il contesto culturale al quale si rivolge.

La biografia, inoltre, permette allo storico di contemplare il registro del particolare e dell’universale senza cadere in eccessive semplificazioni o banalizzazioni e gli consente di assumere quella distanza critica che le memorie scritte dai reduci non possono sempre avere. Il libro di Maida ha un valore aggiunto non indifferente, poiché, nella seconda parte, riporta per intero il diario che Beccaria ha scritto durante la prigionia, un documento unico ed eccezionale, non solo perché era un’impresa rischiosa e elitaria quella di scrivere all’interno del Lager, ma anche perché era ancor più raro riuscire a conservare e a portare con sé gli scritti.

È una scelta precisa e dichiarata dell’a. quella di non utilizzare i Taccuini di Lidia nella parte della biografia relativa alla deportazione, al fine di valorizzarli nella loro interezza e di salvaguardarne il valore documentale. Questo, a mio parere, è un limite del saggio, poiché ritengo che i Taccuini gettino luce nuova sul vissuto di Lidia all’interno del Lager e che aprano nuovi spazi di riflessione sulla sua scrittura e sull’elaborazione della prigionia che ha fatto in seguito. Maida, non utilizzando gli appunti di prigionia di Beccaria come fonte, ha scelto di tener separate le due cose, quasi che i taccuini fossero un documento storico, ma non storicizzabile.

Valentina Greco

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“Il pensiero di Lidia

“ […]”. “Non fa neppure in tempo a maturare una sua co- scienza politica che viene arrestata e deportata a Ravensbrück. Nel campo femminile, dove le prigioniere erano costrette ad imparare rapidamente a comprendere quelle dure leggi di sopravvivenza, che sole permettevano di ambientarsi, Lidia apprese, quando fu spostata al campo Siemens, dalle francesi come comportarsi e come muoversi: «Lidia comprese così che la cura di sé stessa (pettinarsi, lavarsi, mantenere in ordine e pulito il proprio abbigliamento) era una forma di opposizione alla disumanizzazione e di rispetto verso le altre prigioniere. Imparò che si poteva rubare nel Lager ma solo al sistema, non alle compagne; che si doveva lavorare il meno possibile ma non evitare le corvé perché le conseguenze ricadevano sulle altre; che era un suo dovere rispettare il proprio turno alle latrine e per la zuppa […].

Costruire una coscienza politica nel Lager era dunque una forma di resistenza alla quale, però, doveva accompagnarsene un’altra, altrettanto importante, ossia l’allenamento del cervello e della memoria. Monique iniziò a insegnarle a parlare e a scrivere meg lio il francese, la costrin se a ricordare le poesie traducendone i versi, a ricordare e raccontare della sua terra, della sua casa, del- le sue montagne». E questa straordinaria lezione si trova riflessa nelle pagine dei Ta c c u i n i, pubblicati qui per la prima volta: appunti scritti in Lager, che ci rivelano questo tentativo di recuperare, dopo l’iniziale smarrimento, la propria dimensione umana.”. 

“[… ]”.

(Frontehttps://www.deportati.it/static/pdf/TR/2009/1-3/29_37.pdf)

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Chi è stato deportato una volta, lo sarà per sempre. Porterà sempre con sé il segno di quel tormento, del torto ricevuto, delle notti e dei giorni di paura”, ha scritto Giulio Bussi su Il Sole 24 Ore. Di questa consapevolezza si fa voce, forte e impietosa, il Saggio di Maida su Lidia Beccaria Rolfi di cui avete letto sin qui. Questo libro vi farà diventare cattivissimi, ma di una cattiveria raccomandabile e anzi, necessaria.

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Il “Ponte dei Corvi” e il “lavoro schiavo” delle deportate alla Siemens Werke & Halske

Come è certamente noto il Lager di Ravensbruck fu il principale Campo di Concentramento femminile nazista, situato ad 80 chilometri a Nordest di Berlino in una zona chiamata la “Siberia” della Germania. La giovane Maestra Elementare italiana vi fu deportata assieme ad innumerevoli altre donne (arrivarono fino a 130mila) colpevoli, come lei, di antifascismo, ma anche di essere ebree, Testimoni di Geova, zingare. Il Lager era stato edificato su un terreno formato da una duna sabbiosa e desolata. Circondato da un bosco di conifere e betulle e da un alto muro., Era costituito da 32 Baracche per le deportate, Uffici per l’Amministrazione, case per le SS e nelle adiacenze del Campo, dall’Agosto 1942 all’Aprile 1945 (il Lager venne liberato il 30 Aprile 1945) funzionò un Centro di Produzione della Società Siemens Werke, la Siemens & Halske, di Berlino, per il lavoro schiavo delle internate, dove “lavorò” anche Lidia Beccaria Rolfi, insieme ad altre 2.300 deportate.

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Per saperne di più: “A volte sogniamo di essere libere”, a cura di Ambra Laurenzi e Raul Calzoni, edito nel 2020 dalla Franco Angeli.

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