Meloni vs Schlein, un anno di comunicazione politica a confronto: romanesco contro tecnicismo, chi vince?
Per capire la comunicazione politica del 2024 è utile paragonare il linguaggio di Giorgia Meloni a quello di Elly Schlein. Il confronto, infatti, permette considerazioni più ampie su alcuni tratti tipici non solo delle due leader, ma di tutta la comunicazione della destra e sinistra italiana. Vediamo come.
Giorgia Meloni usa preferibilmente un lessico semplice, con pochi tecnicismi, pochi termini colti e molte parole che si riferiscono alle esperienze ordinarie di chi ascolta. Per quel che riguarda la sintassi, organizza le frasi con una dominanza della paratassi sull’ipotassi, cioè preferisce frasi coordinate brevi e autonome a lunghi periodi di subordinate. Meloni insomma parla in modo diretto e concreto, vicino a come parlano le fasce meno colte della popolazione. In questo, però, non fa nulla di nuovo, perché riprende una tendenza che il centrodestra cominciò già all’inizio degli anni Novanta, quando i protagonisti erano Berlusconi, Bossi e Fini.
Anche nel linguaggio di Elly Schlein ritroviamo caratteristiche tipiche della sinistra italiana, che sono rimaste costanti nel tempo, dal Pci al Pds, dai Ds all’attuale Pd. Anzitutto, mentre negli anni Novanta Berlusconi, Bossi e Fini riuscirono rapidamente a smarcarsi dal cosiddetto politichese della Prima Repubblica, per avvicinarsi a come si parla nella vita di tutti i giorni, la sinistra ha sempre fatto fatica a farlo.
Ma quali sono i tratti linguistici da cui nemmeno Schlein riesce a liberarsi? Per quel che riguarda il lessico: uso preferenziale di parole astratte invece che concrete (cioè riferite a esperienze ordinarie); uso frequente di espressioni prolisse, di perifrasi e circonlocuzioni al posto di espressioni più brevi e dirette; preferenza per le parole colte, i tecnicismi e il gergo politico, invece di usare espressioni comuni e colloquiali. Per quel che riguarda invece la sintassi: prevalenza dei periodi lunghi (più di 35-40 parole) su quelli brevi (meno di 20 parole); preponderanza dei verbi passivi e impersonali (più indiretti) su quelli attivi (più facili da comprendere); predominio dell’ipotassi sulla paratassi, ovvero delle frasi subordinate su quelle coordinate.
Tutto ciò produce un paradosso: anche se di principio la sinistra dovrebbe curare gli interessi di chi è economicamente, socialmente e culturalmente più debole, di fatto non riesce a farlo, mentre è proprio la destra a parlare il linguaggio più vicino alle fasce meno colte e meno abbienti della popolazione. Non a caso, la sinistra appare elitaria, distante, astratta. Certo, non è solo un problema di linguaggio, ma questo svolge un ruolo importante.
Inoltre, Giorgia Meloni fa qualcosa in più rispetto ad altri leader di centrodestra. Pur rivolgendosi a una platea nazionale, infatti, la sua lingua è impastata, non solo nell’inflessione, ma nel lessico, nella sintassi e negli intercalari, di dialetto romanesco. E anche se questa caratteristica è spesso criticata dai media e parodiata dai comici, Meloni riesce a condire il suo parlato con dosaggi di romanesco che superano con efficacia i limiti regionali.
Ciò è possibile anzitutto perché il romanesco, storicamente influenzato dal toscano, è da sempre più affine all’italiano di molti altri dialetti, per cui è comprensibile anche a chi non vive nell’area. Inoltre, dagli anni Cinquanta in poi, la diffusione di prodotti televisivi e cinematografici con protagonisti romani (attori e attrici, conduttori, comici, giornalisti e giornaliste) ha progressivamente intriso questo dialetto di significati e valori positivi. Grazie a decenni di cinema e tv, infatti, la parlata romanesca oggi evoca fama, ricchezza, mondanità (la “dolce vita”), ma anche potere o almeno vicinanza a chi lo detiene (a Roma stanno Montecitorio, Palazzo Chigi, il Quirinale).
Forte di questa base linguistica, Meloni è fin qui riuscita a giocare con più facilità di altri leader la strategia comunicativa ambivalente tipica del centrodestra: riprodurre il modo di parlare (e pensare) degli strati meno colti e meno abbienti della società, ma gestire il potere anche quando, come spesso accade, contrasta o nega le loro necessità. Una lingua condita di romanesco, infatti, porta già in sé la combinazione di queste due aree semantiche: “sono una di voi” e “sono io che comando”. È così che nasce l’illusione che il potere, poiché esercitato da “una di noi”, non possa che essere “a favore di noi”. Ed è sempre così che nasce – e si mantiene – il consenso di cui tuttora gode la Presidente del Consiglio. In questo quadro, non stupisce che Meloni convinca di più e meglio di Schlein. E ancora una volta, non è solo una questione di linguaggio, certo. Ma in politica, come altrove nella vita, la comunicazione conta, eccome.
Tutto bene per lei, dunque? Non proprio. Alla lunga, infatti, eccedere in ammiccamenti, come spesso Meloni fa, può portare le persone a viverli come finti, manipolatori e ingannevoli. Specie se alle parole, pur concrete, non seguono i fatti. Ricordiamo allora che, per qualunque governo, comunicare bene, nei modi e nei tempi giusti ciò che ha fatto, che fa e che farà, ovvero i fatti, le azioni, i risultati concreti, è sempre la strategia migliore. Una strategia che però in Italia, tanto a destra quanto a sinistra, tutti i governi tendono a evitare. Specie se i fatti, le azioni e i risultati sono insufficienti, sbagliati o non vantaggiosi per il loro stesso elettorato. Che per un po’ non se ne accorge, ma prima o poi – è solo questione di tempo – presenta il conto.
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