Medici italiani primi al mondo a lanciare un progetto che favorisce l’inclusività delle persone transgender nelle cure oncologiche e negli screening di prevenzione
Non si può pensare di aver compiuto importanti passi avanti in tema di inclusione sociale se non si è partiti dalle basi: la tutela della salute. Proprio per questo, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) è stata la prima società scientifica al mondo a decidere di concentrarsi anche sulle disparità presenti in campo oncologico per la popolazione transgender e gender-diverse, in termini di fattori di rischio, prevenzione e in certi casi anche di trattamento.
Due anni fa è nato Onco-gender, progetto multidisciplinare a cui partecipano non soltanto medici oncologi, ma anche endocrinologi, ginecologi, radioterapisti e varie figure professionali dell’ambito sanitario che, nel tempo, hanno dimostrato interesse e iniziato a collaborare ai vari obiettivi in corso.
«La prima cosa che il team ha fatto è stata raccogliere tutti gli studi e le evidenze già esistenti nella letteratura scientifica sulla salute dei transgender per sistematizzarli in un’unica revisione. Si trattava di materiale disordinato, sparso e quindi di difficile accesso anche per i ricercatori», spiega Alberto Giovanni Leone, coordinatore del gruppo e specializzando in Oncologia medica all’Istituto Nazionale Tumori di Milano. «Le differenze che abbiamo subito notato, relativamente a questa parte della popolazione LGBT, riguardano i fattori di rischio, determinati da una più alta prevalenza di abitudine al fumo e al consumo di alcol, entrambe sostanze cancerogene», precisa il medico.
Mediamente, nella popolazione transgender, si riscontrano infatti comportamenti più a rischio rispetto alla popolazione cisgender. Tuttavia, nonostante questi presupposti, «ad oggi non vi sono dati prospettici che ci permettono di capire se le persone transgender si ammalano di tumori con più frequenza rispetto a quelle cisgender», aggiunge.
Va da sé che la popolazione transgender necessita di un’attenzione maggiore sul fronte della prevenzione oncologica. Anche per questo, la seconda operazione messa in atto dal team è stata la realizzazione di due sondaggi specifici: uno rivolto alla popolazione transgender che vive in Italia e un’altro destinato agli operatori sanitari che lavorano in ambito oncologico: «Siamo riusciti a raggiungere la comunità transgender grazie a una collaborazione con Elma Research, società specializzata in ricerche di mercato nell’ambito farmacologico, ma che in questo caso si è dedicata a un progetto no profit», spiega il dottor Leone. «Grazie a questo lavoro siamo stati in grado di realizzare una fotografia di quella che è la situazione attuale».
Ora, insieme all’Istituto Superiore di Sanità, il team di Onco-gender sta lavorando alla parte pratica del progetto: «Abbiamo realizzato un tavolo di lavoro nazionale che coinvolge varie società scientifiche, non solo di oncologia medica, e dove siedono anche tutte le associazioni di persone transgender in Italia. L’obiettivo è capire insieme quali barriere vi siano nei riguardi degli screening oncologici e come superarle, visto che nella popolazione transgender l’adesione ai programmi di prevenzione è molto bassa».
Le ragioni di questa scarsa adesione non sono banali, fanno capo a una situazione abbastanza complessa e per questo richiedono un’attenzione molto particolare. «I programmi di screening, in Italia, sono tre: colon retto, cervice uterina e mammella. Tolto il colon retto, che è un organo per cui non vi sono differenze tra maschi e femmine, negli altri due casi esistono molti problemi all’accesso per le persone transgender», spiega il dottor Leone. «Prendiamo il caso del carcinoma della cervice uterina: persone con sesso assegnato alla nascita femminile che si identificano invece nel genere maschile – e che noi definiamo quindi uomini transgender – nel 75% dei casi, in Europa, non si sottopongono all’isterectomia (l’intervento per l’asportazione dell’utero, ndr); hanno ancora la cervice in situ e si tratta quindi di uomini transgender a rischio – esattamente come le donne cisgender – di contrarre un’infezione da Papilloma Virus e, di conseguenza, il carcinoma della cervice uterina».
Ma qual è esattamente il problema per lo screening? «Se queste persone hanno già completato l’iter per la riassegnazione anagrafica non riceveranno l’invito attivo perché verranno considerati “M” dal Servizio Sanitario Nazionale», chiarisce il medico. «Ancor più grave è che, anche volendo essi stessi rivolgersi autonomamente al consultorio o all’ambulatorio, non possono accedere a una prestazione ginecologica, perché esiste proprio una barriera informatica».
Per risolvere questo punto, il team di Onco-gender si è fatto promotore di una task force nazionale insieme all’Istituto Superiore di Sanità: «Sono già nati dei progetti locali, ma per superare questo tipo di barriere è importante lavorare a livello nazionale», precisa Leone.
A questi «limiti» burocratici – che potrebbero essere facilmente abbattuti attraverso un semplice lavoro informatico – si affianca però «una mancanza di sensibilizzazione sul tema della prevenzione, sia degli operatori sanitari – che molto spesso non conoscono le tematiche di medicina transgender – sia della stessa popolazione transgender», aggiunge. Ecco perché il prossimo passo del progetto Onco-gender sarà quello di realizzare una mappatura dei servizi regionali attraverso un nuovo sondaggio dedicato, poiché «abbiamo a che fare con 20 sistemi sanitari diversi e vogliamo capire esattamente quali sono le barriere nelle diverse regioni e province d’Italia, soprattutto dal punto di vista logistico. Una volta compreso questo, cercheremo di capire come abbatterle».
Contemporaneamente, il team di specialisti continuerà a realizzare contenuti educativi per gli operatori sanitari, partecipando a eventi di formazione e divulgazione insieme alle associazioni e agli attivisti della popolazione transgender e cisgender in generale.
Rispetto a due o tre anni fa, quando dalla survey era emerso che soltanto 1 oncologo su 5 si riteneva abbastanza formato per prendere in cura un paziente transgender, «oggi la conoscenza degli oncologi italiani è aumentata di molto. E mi piace pensare che questo sia avvenuto anche grazie al nostro lavoro», conclude il coordinatore.
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