Lazio

Maxi processi e trucco mediatico – Il Tempo


Giuseppe Cricenti

Ennesimo esito di una delle tante maxi operazioni giudiziarie, dall’epico nome «Maestrale-Carthago», condotta dalla Procura Antimafia di Catanzaro: dei novanta imputati, quaranta assolti. E tutto questo con il rito abbreviato, ossia sulle sole carte del pubblico ministero, sui soli atti di indagine, senza aggiunta di alcuna altra prova a favore degli imputati. Il processo nasceva con molti altri imputati, alcuni dei quali hanno scelto l’abbreviato, altri il dibattimento. Una situazione che si è ripetuta in questi anni, con esiti simili, e con simile strame di diritti. Molti buontemponi continuano a dire che l’indagine ha retto, ha svelato una realtà di illeciti e di infiltrazioni mafiose. Eppure, quella inchiesta ha coinvolto decine di persone, non solo risultate del tutto estranee alle accuse, ma per di più sottoposte, durante le indagini, ad arresti domiciliari, a carcerazioni preventive, ad altre forme di restrizione personale. Queste assoluzioni giungono dopo molte altre, in precedenti ed analoghi maxi procedimenti. Il che pone alcune questioni. La prima riguarda proprio la furbata dei maxiprocessi, che sono, per l’appunto, dei procedimenti con moltissimi imputati, accomunati quasi sempre da un legame – medesimo gruppo mafioso, una qualche connessione tra i reati commessi – che alla fine si rivela inesistente. Il maxiprocesso, se non sempre, è spesso un trucco mediatico: se mando a processo il singolo malfattore non faccio notizia, come invece la faccio esibendo una inchiesta a carico di duecento, trecento indagati, per fare la quale ovviamente lancio la rete e nella rete prendo di tutto. Uno dei tanti costi umani di questa strategia giudiziaria è che il maxi processo accomuna nella stessa sorte mediatica imputati di diversa genia e caratura criminale: nella indagine prima ricordata, sullo stesso banco dei boss sedevano professionisti e imprenditori poi assolti, del tutto estranei alle organizzazioni criminali. Mostruosità resa possibile dalla contestazione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa a qualsiasi tipo di condotta, sull’abnorme presupposto che si può non essere mafioso ma comportarsi come tale. Il maxi processo non è necessariamente un’esigenza processuale, non si può continuare a sostenere, davanti alla evidenza dei fatti, che il gigantismo del processo è conseguenza del gigantismo del crimine, se le stesse imputazioni lo smentiscono. E soprattutto se lo smentiscono gli esiti. L’uso propagandistico del maxiprocesso ha poi l’ulteriore e più perniciosa conseguenza di proporre una risposta esemplare ad un fenomeno esemplare, e dunque di caricare il processo di significati politici che ne snaturano la funzione tipica. Chi crea quei processi con centinaia di imputati ha, o mostra di avere, lo scopo di fornire una risposta storica alla criminalità organizzata. Ma non è questo lo scopo del processo, e non è questo soprattutto lo scopo cui legare i destini delle persone coinvolte.
 




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