Matteo Zuppi, il cardinale che parla al cuore degli ultimi (e al mondo intero)
È entrato alle Congregazioni generali qualche giorno fa a bordo di un’utilitaria bianca, proprio quella 500 che usava papa Francesco per andare nelle parrocchie romane come per sbarcare negli Usa dei pick up e delle Chevrolet. Una gaffe bella e buona dal momento che il bianco è il colore riservato unicamente ai Pontefici. Ma quale immagine migliore potrebbe descrivere la personalità fuori dagli schemi, bonaria e allo stesso tempo pop di Matteo Zuppi?
Don Matteo, il prete di strada
Creato cardinale da Francesco nel 2015 che ha visto in lui un suo degno figlio spirituale, il porporato romano di cui ormai ogni sanpietrino conosce vita, morte e miracoli, non ha mai perso l’impronta da «don Matteo», cioè da prete di strada, che le pecorelle se l’è andate a cercare giovanissimo nei sobborghi romani, le periferie oggi quasi di moda e che negli anni ’60 e ’70 erano invece il sogno proibito degli infatuati dal Concilio Vaticano II. Lì don Matteo, nato bene se non benissimo, figlio di Enrico Zuppi per 30 anni direttore dell’Osservatore romano, studente a suo modo ribelle al prestigioso liceo Virgilio, si è proiettato muovendo i primi passi al fianco della nascente Comunità di sant’Egidio.
I ragazzi di Sant’Egidio: il Vaticano di Trastevere
Coetaneo di Andrea Riccardi, una generazione più giovane di monsignor Vincenzo Paglia, è questo «magico» trio che ha plasmato un’idea di chiesa vicina agli anziani confinati nei dormitori del Corviale, di Torre Angela, di Tor Sapienza; vicina ai giovani insofferenti di ritrovarsi così distanti dai centri del potere oggi targati Ztl; vicina ai derelitti della nuova metropoli che Roma è divenuta dopo il boom economico. Si forma così un profilo sempre più robusto, da pastore e anche sempre più fieramente «contro» riti e rituali dei soliti sepolcri imbiancati, quasi come se don Matteo volesse interpretare l’ansia di riscatto degli ultimi. Ai ricevimenti della Comunità di Sant’Egidio, nel frattempo diventata l’Onu di Trastevere – un Vaticano parallelo dove sulla stessa terrazza potevi trovare un premio Nobel come un profugo – , tenuti con un certo fasto e su piani separati al palazzo di San Giovanni in Laterano (poveri e senzatetto al piano terra con pasti gratis, potenti e leader mondiali al piano nobile), c’è chi se lo ricorda approcciare il tavolo del buffet schivo, ricurvo, con le buste della spesa di plastica al seguito.
Don Matteo allora non era quel porporato dal sorriso piacione che è oggi, quando di strada e di «successi» come quello del raggiungimento della pace in Mozambico, ne ha ottenuti. C’era in lui quasi un risentimento verso una società che condannava gli esclusi a rimanere esclusi, i giovani di belle speranze a scivolare facilmente nel crimine, le donne a non potersi sottrare a un destino domestico.
La svolta con Francesco: un’anima accesa
Tutto è cambiato quando Bergoglio è stato eletto al soglio di Pietro e ha preso il nome di Francesco. Zuppi si è come illuminato, è venuto fuori il tratto umanissimo, il desiderio troppo a lungo trattenuto di abbracciare a piene mani il prossimo, di accarezzare ogni ferita e ogni cicatrice. Francesco è stato un suo grande sponsor. Lo ha mandato a Bologna, elevandolo alla dignità di arcivescovo. Quindi, appena è stato possibile lo ha indicato come presidente della Cei, conferendogli carta bianca nell’opera di riforma della Chiesa italiana, una delle più conservatrici.
Il cardinale della pace (e della bicicletta)
Nasce un nuovo Zuppi: la sua vita diventa un film, il suo uso della biciletta epico, la sua partecipazione alla consegna delle armi da parte dell’Eta, leggenda. Francesco gli affida anche la missione impossibile: mediare tra Washington, Kiev e Mosca lavorando discretamente allo scambio di prigionieri e al ritorno dei bambini ucraini deportati dai russi alle loro famiglie originarie. Vien fuori anche un don Matteo più intimo: avrebbe voluto un famiglia, ma poi ha abbracciato la famiglia «più grande», quella della Chiesa. Esecutore delle riforme di Francesco, aperto all’incontro con gay e transessuali, magari anche all’idea di rivedere la rigidità del celibato, non è però nemmeno quel liberal che spesso viene descritto.
Un uomo liberal?
I familiari delle vittime di pedofilia in Italia, proprio alla vigilia del Conclave, hanno lamentato il suo scarso impegno a cambiate le cose, a spingere per rivedere ad esempio quella norma che, anche se dello stato, prevede che i sacerdoti non abbiano l’obbligo di denuncia. Zuppi a una certa tradizione ecclesiastica ci tiene, a una certa visione per cui il sacerdote non è del mondo, ma della sfera del sacro. Il suo modello è senz’altro Francesco ma è anche molto di più. È Gesù Cristo.
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